Fede e cultura: un discernimento continuo

In questi giorni due articoli molto diversi (Andrea Grillo e Agostino Giovagnoli) hanno attirato la mia attenzione riguardo ad un tema molto importante che, nonostante rappresenti la questione di fondo in molte discussioni e dibattiti intra ed extra ecclesiali, risulta davvero poco approfondito nei nostri percorsi formativi. Il tema riguarda il rapporto tra la fede e la cultura e come la cultura – non raramente – contribuisca nell’approfondimento della fede.

Il principio dell’inculturazione della fede rappresenta uno dei frutti più preziosi del Concilio Vaticano II e non riguarda solamente la liturgia, con l’esigenza ormai riconosciuta di adattare i riti della fede alla cultura dei vari popoli del mondo, ma anche il nostro modo di dire e comprendere la fede, a partire dall’interpretazione della Scrittura chiamata a considerare “la maniera umana” in cui quei testi sono stati scritti, per ricercare “cosa a Dio è piaciuto manifestare con le loro parole” (Dei verbum 12).

Dati questi principi, che appartengono al magistero della Chiesa, permane tra molti cristiani la tentazione di doversi difendere dalla cultura – intesa non in modo astratto o accademico, ma come vissuto condiviso – quasi che essa voglia minacciare permanentemente il dato della fede. D’altra parte permane anche in molti “laici” il pregiudizio che i cristiani, nello sviluppo del loro pensiero, siano impermeabili al progresso della cultura perché aggrappati a verità assolute ritenute ormai irragionevoli di fronte alle sfide della (post-) modernità.

In realtà il principio dell’inculturazione della fede, che ha il suo fondamento teologico nella verità dell’incarnazione del Verbo di Dio, non rappresenta affatto un limite alla possibilità (solo teorica) di potere “dire” la fede in modo “perfetto”, quasi che si debba soggiacere alla necessità di un adattamento per l’esigenza di farsi comprendere (come se dovessi spiegare delle cose importanti ad un bambino), ma al contrario proprio questo principio aiuta i credenti ad incarnare la loro fede approfondendola, conoscendo sempre meglio il volto di quel Dio in cui hanno creduto, un Dio che ha voluto legarsi indissolubilmente con la realtà umana lasciandosi rivelare da essa. Basta pensare all’uso che Gesù fa delle parabole nella sua predicazione; le parabole non sono affatto delle storielle che Gesù utilizza per spiegare i misteri del Regno di Dio, ma degli elementi appartenenti alla natura o al modo di vivere delle persone che rivelano aspetti importanti su Dio, sulla sua benevolenza e sulla sua misericordia verso gli uomini e sul suo desiderio di renderli partecipi della sua stessa vita.

Noi viviamo in una storia, in un tempo e in uno spazio con caratteristiche proprie di questo nostro tempo e del luogo in cui la provvidenza ci ha portato a vivere. Con gli uomini e le donne con cui viviamo condividiamo gioie e speranze, dolori e angosce, successi e sconfitte. Mentre ci è abbastanza noto il contributo dato dai cristiani a partire dalla loro testimonianza evangelica, non sempre riconosciamo che moltissimi dei progressi della cultura, così come quelli della scienza, aiutano noi cristiani a comprendere sempre meglio chi sia Dio e cosa lui abbia voluto insegnarci per aiutarci a vivere in pienezza la nostra umanità in questo tempo.
Pensiamo, per esempio, all’atteggiamento di sospetto che la Chiesa aveva all’inizio del XX secolo per le nascenti strutture democratiche degli stati e come invece oggi essa sia in prima linea nel riconoscere che questa forma di governo dei popoli, vissuta nel rispetto della giustizia, rappresenti la migliore garanzia per il progresso della fraternità universale in Cristo, elemento che riguarda la missione della Chiesa (Lumen gentium 1).
Pensiamo ancora come l’affermazione della dignità dell’uomo in ogni condizione di vita e ancora più specificamente della dignità della donna, del valore della pace e della inaccettabilità della guerra, dell’importanza della giustizia sociale e dell’ingiustizia della pena di morte, siano elementi che la Chiesa ha riscoperto proprio grazie ad un progresso culturale ampio che l’ha aiutata ad approfondire ciò che già apparteneva al Vangelo, ma che – per gravi condizionamenti culturali – non era capace di vedere. Sono solo alcuni esempi.

Certo, non bisogna essere ingenui! Nella cultura che condividiamo c’è anche tanto di inconciliabile con il Vangelo, come ci sono molti elementi che ancora chiedono di essere illuminati con pazienza, senza superficialità, proprio perché hanno a che fare con questioni molto delicate. Ma ciò non toglie che il dialogo possa essere franco e rispettoso e che possa essere considerato fruttuoso non tanto per convincere altri della ragionevolezza della fede, quanto piuttosto per favorire l’approfondimento della fede stessa proprio mentre essa è sollecitata da questioni sempre nuove.

In questo percorso di dialogo, ci può molto aiutare la pratica del discernimento comunitario, una pratica antica, ma che per molto tempo non è stata utilizzata perché ritenuta non necessaria da una Chiesa abituata a vivere in una società cristiana. La secolarizzazione, la globalizzazione e il cambiamento d’epoca ci impongono di riappropriarci in modo diffuso di questa antichissima arte, per scoprire come il Signore si rivela nelle storie delle persone che incontriamo, storie che diventano tessere di un mosaico che sarà completo solo alla fine dei tempi, quando il Signore compirà il suo Regno. Questa fedeltà alla carne dell’uomo, al suo vissuto concretissimo, la nostra rinnovata capacità di farci prossimi alle persone che incontriamo secondo lo stile del Vangelo; il nostro impegno nella testimonianza della fede e nel rendere ragione della speranza che è in noi ci aiuterà a saperci fare provocare da ciò che lo Spirito Santo – il solo che ci conduce a tutta intera la verità – ci vorrà insegnare riguardo a Dio e alla sua volontà di salvare tutti gli uomini, anche quelli del nostro tempo che lui guarda con amore di Padre e che ci chiede di riconoscere come fratelli e sorelle.
Nel frattempo camminiamo nella storia fiduciosi della promessa del Signore di essere con noi tutti i giorni fino alla fine del mondo.

Mentre scrivevo queste righe mi è tornato alla mente più volte un testo del Vangelo che spesso ci troviamo a leggere con difficoltà, perché sembra mettere in crisi la “perfezione di Gesù”. Si tratta dell’incontro con una donna definita siro-fenicia o più genericamente cananea (Mt 15,21-28 o Mc 7,24-30), la quale chiede a Gesù di liberare sua figlia, che era posseduta da un demonio. Nella sua risposta alla donna Gesù vuole marcare una distinzione tradizionale tra ebrei e pagani, distinzione che sarebbe stata giustificata da qualsiasi rabbino; ma quella donna insiste e, nelle sue parole, Gesù riconosce una verità più ampia sulla paternità di Dio che, probabilmente, lui stesso non aveva tenuto presente.
Gesù riconosce la fede di quella donna: cioè riconosce che parla di Dio in modo autentico, nonostante sia formalmente estranea al popolo d’Israele, e asseconda la sua richiesta proprio perché riconosce il suo diritto a considerare Dio come Padre e a considerarsi come parte di quella casa in cui c’è posto per tutti anche se in ruoli diversi. Possiamo dire che quella donna abbia aiutato Gesù a conoscere un po’ meglio chi sia Dio? La storia di quella donna, incontrata nella concretezza della sua richiesta di aiuto e ascoltata nella sua professione di fede, ha regalato a Gesù, e tramite lui a tutti noi, una piccola tessera che è diventata parte di quel grande mosaico che è il Vangelo.

Fare festa

Vedendo sui social le immagini della piazza di Faenza ieri sera, con centinaia di persone che, dopo aver passato una giornata a spalare fango, si sono riunite spontaneamente per fare festa, mi sono commosso. Non per quell’orgoglio romagnolo che in queste ore di fatica viene diffuso come benzina per alimentare gli sforzi dei soccorritori e dei volontari, ma perché è bello vedere le persone festeggiare con semplicità, senza sovrastrutture, senza organizzazioni, con un po’ di cibo condiviso e alcuni strumenti suonati da dei giovani artisti che animano le danze della gente.
Ancora sporchi di fango (quelle macchie esibite sui social sono ormai motivo di vanto e testimonianza di impegno) si sono ritrovati nella piazza della città per festeggiare.

Mi è venuto in mente quanto afferma papa Francesco nella Evangelii Gaudium al n. 24 che, tra i cinque verbi che caratterizzano l’evangelizzazione della Chiesa ricorda anche il festeggiare, cosa di cui – dobbiamo ammetterlo – non siamo più tanto capaci.
Proprio in questi giorni, nel confronto con un amico, emergeva la fatica di vivere in parrocchia una festa per la conclusione dell’anno pastorale: la gente non ne ha voglia né di organizzarla, né di partecipare … con il cuore e la mente sono altrove. Cosa ci dice questa cosa?

La gente di Faenza ci testimonia quali siano gli elementi che fanno la festa: sentirsi parte di una comunità, condividere qualcosa di importante (un’impresa) sentendosi tutti protagonisti senza esclusione di nessuno, … allora sboccia la festa anche se non tutti i problemi sono ancora stati risolti, anche se ancora c’è tanto fango e la gente dorme nei palazzetti, anche se il giorno dopo si tornerà a faticare… Vorrei che le immagini di questi giorni entrassero nel percorso sinodale che la Chiesa sta facendo perché possiamo imparare molto dalla nostra gente, dal loro modo di ritrovarsi per lavorare insieme e per festeggiare, sorpattutto da quelli che da anni si sono allontanati dalle nostre assemblee…

A suo modo quella di ieri è stata una “liturgia” di ringraziamento…
Mi ha reso un po’ triste il segno della chiesa cattedrale chiusa (lo dico sinceramente senza alcun giudizio e senza alcuna polemica, ma simbolicamente è un segno che stride molto) mentre tutta la gente era proprio lì davanti a festeggiare. Se quella chiesa, che rappresenta ogni nostra chiesa, fosse stata aperta magari qualcuno avrebbe completato quella “liturgia popolare” coinvolgendo in modo più evidente anche il Signore; se fosse stata aperta, forse la gente avrebbe sentito che anche quello spazio poteva essere “occupato” per condividere la festa.

Oggi in quelle chiese ci ritroveremo per le nostre liturgie di ringraziamento nella festa dell’Ascensione; molti volontari saranno ancora impegnati a spalare il fango e a tentare di risistemare. Con lo spirito li vogliamo sentire con noi per condividere nella nostra festa la loro festa e portarla al Signore nel pane e nel vino che presenteremo sull’altare, frutto di una terra che ora è stata allagata e di un lavoro dell’uomo che, in questi giorni nella nostra regione, è molto caratterizzato dal soccorso, dalla solidarietà e dall’aiuto reciproco.

Non siamo soli!

Molte parole sono state spese per descrivere il disastro che ha colpito in questi giorni quarantadue comuni della Romagna e della provincia di Bologna. Migliaia di persone hanno dovuto abbandonare le loro case; moltissime aziende, soprattutto aziende agricole, hanno perso i raccolti e subito danni gravissimi; centinaia di frane hanno ferito le zone collinari isolando paesi e piccoli borghi; alcune persone hanno perso la vita sorprese dalla velocità dell’acqua che ha invaso le loro case o nel tentativo di mettere in salvo alcune cose importanti…
Molte immagini sono circolate sulla rete e sulla TV: alcune raccontano la desolazione causata dall’alluvione in una terra feconda e ricca; molte di più raccontano lo sforzo di tante e tanti che si sono prodigati per soccorrere, mettere in salvo, assistere i più fragili e, già da ieri, tentare di risistemare le zone e le case in cui l’acqua si era ritirata.

Scioccanti le grida che risuonavano nel buio della notte di martedì tra le vie della cara città di Faenza: le persone chiedevano aiuto dai tetti o dai terrazzi, chiedevano che qualcuno si prendesse cura di loro, che li mettesse in salvo dalla furia dell’acqua. Quelle grida sono risuonate dentro di me accanto alle parole di un salmo che ho pregato tante volte: Salvami, o Dio: l’acqua mi giunge alla gola. Affondo nel fango, non ho sostegno; sono caduto in acque profonde e l’onda mi travolge. Sono sfinito dal gridare, la mia gola è riarsa; i miei occhi si consumano nell’attesa del mio Dio. (Sal 69).
Nel momento della paura, quando siamo impotenti e incapaci di far fronte ad una situazione di pericolo, è naturale per noi invocare aiuto, chiedere che qualcuno ci salvi… non vogliamo essere soli, desideriamo che qualcuno riconosca il valore della nostra vita e ci soccorra.

In un mondo in cui siamo abituati a pensare che ognuno se la debba cavare da solo e che è proprio lì – in quella conquistata e riconosciuta autonomia – che ognuno dimostra il proprio personale valore, questa esperienza di fragilità, nella sua drammaticità, assume il peso di una rivelazione! Sì, perché in realtà noi siamo sempre in queste condizioni, anche se non ce ne rendiamo conto, anche se ci illudiamo di essere in grado di badare a noi stessi! L’uomo, ogni uomo, è una creatura fragile, esposta a mille pericoli. Ha sempre bisogno che qualcuno si prenda cura di lui, altrimenti non sarebbe in grado di cavarsela da solo.

In questi giorni scopriamo il grande valore della solidarietà su cui si fonda il nostro sistema sociale e politico (come afferma la Costituzione all’art. 2 che la riconosce come dovere): di fronte all’emergenza e al pericolo qualcuno viene in nostro aiuto, una comunità di uomini e donne si mobilità affinché, nel limite del possibile, nessuno venga abbandonato a sé stesso e tutti vengano accuditi al meglio delle possibilità del momento. Sono commoventi le immagini che hanno mostrato gli sforzi dei soccorritori nelle prime ore dell’emergenza come anche le centinaia di persone, tra cui moltissimi giovani, che già da ieri, sporche di fango, si prodigavano per aiutare coloro che avevano visto la loro casa invasa dall’acqua e dal fango.

Per noi credenti, proprio in questi giorni che ci accompagnano verso la Pentecoste, valgono le parole consolanti che Gesù ci ripete incessantemente nel vangelo secondo Giovanni: Non vi lascerò orfani… non vi lascerò soli; fino a quelle della grande promessa che ascolteremo domenica nella festa dell’Ascensione: … io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo (Mt 28,20). Queste parole sono molto importanti nei momenti di pericolo e di fatica, ma lo sono anche tutti i giorni, quando ci troviamo ad affrontare le sfide quotidiane che ci mettono in difficoltà, che ci spaventano… Gesù ci ricorda semplicemente che non siamo soli, che lui ha cura di noi (Cfr. 1Pt 5,7).
E’ proprio qui che si gioca la sfida della nostra fede, come per i discepoli che si trovano sulla barca in balia della tempesta: loro sono spaventati a morte e Gesù sembra addormentato e indifferente; travolti dalla paura gli rivolgono la “domanda delle domande”: ma a te non importa che moriamo? ma per te le nostra vita non vale nulla? Il Vangelo racconta che Gesù si destò, minacciò il vento e disse al mare: “Taci, calmati!”. Il vento cessò e ci fu grande bonaccia. Poi disse loro: “Perché avete paura? Non avete ancora fede?”. (cfr. Mc 4,39-40)

In questi giorni in cui viviamo la paura, la fragilità e la precarietà saremo testimoni di tanta solidarietà da parte di tante persone che si sentiranno chiamate in causa per soccorrere e fare sentire la loro vicinanza a coloro che sono stati colpiti dalla tragedia.
Per noi credenti tale circostanza potrebbe rappresentare un’opportunità preziosa se, proprio in mezzo a queste grandi difficoltà, potessimo fare anche un passo nel cammino della fede, quella che portava san Paolo a dire, con la forza che lo distingueva, “quando sono debole, è allora che sono forte” (2Cor 12,10). Paolo non era un fanatico o un esaltato, ma semplicemente una persona che aveva fatto l’esperienza viva dell’amore di Dio per lui, un amore che si manifesta principalmente nelle difficoltà, quando noi dobbiamo rinunciare alle nostre sicurezze e facciamo l’esperienza della fragilità (come ci ricorda la pagina delle Beatitudini: Mt 5,1-12).
Lo stesso Paolo, nella Lettera ai Romani, ci ha lasciato una testimonianza fortissima di questa esperienza che caratterizza la fede cristiana, quella che a volte, in modo generico, chiamiamo esperienza di salvezza, che altro non è che l’esperienza di essere amati, di essere guardati e scelti.
Noi sappiamo che tutto concorre al bene, per quelli che amano Dio, per coloro che sono stati chiamati secondo il suo disegno… Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli, che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi, non ci donerà forse ogni cosa insieme a lui? … Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? … Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori grazie a colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, … né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore. (Rom 8,28-39 passim).

Davvero non siamo soli! Mai!


Le lacrime di Samuele

Triste vecchio alla porta dell’eternità Vincent van Gogh (1890)

Il Signore disse a Samuele: “Fino a quando piangerai su Saul, mentre io l’ho ripudiato perché non regni su Israele?” (1Sam 16,1). Così inizia il racconto biblico che narra l’unzione di Davide come nuovo re d’Israele, mentre ancora regnava Saul, il re che il Signore aveva ripudiato a causa della sua disobbedienza.

Queste lacrime di Samuele mi sembrano il segno del sentimento che stiamo vivendo in questo tempo della nostra storia, soprattutto a livello ecclesiale: la nostalgia per ciò che non c’è più prevale sulla nostra disponibilità ad impegnarci per ciò che sarà, ciò che il Signore è pronto a realizzare, magari sovvertendo i nostri criteri di giudizio nel valutare ciò di cui “il popolo del Signore” ha veramente bisogno.
Così avviene la scelta e l’unzione di Davide: il Signore che non guarda le apparenze, ma il cuore, e tra i figli di Jesse il betlemita sceglie il più giovane, colui che nessuno avrebbe scelto per essere re d’Israele, un ragazzo fulvo di capelli e bello d’aspetto.

Anche nel racconto degli Atti degli Apostoli che abbiamo letto questa mattina nella liturgia (16,1-10), sorprendentemente, si afferma che lo Spirito impediva a Paolo e ai suoi compagni di compiere la missione lì dove loro avevano pensato opportuno svolgerla. Una certa logica delle cose faceva ritenere conveniente continuare la missione in Misia o in Bitinia (regioni dell’attuale Turchia), ma si rendono conto che la cosa non funziona; non tanto per l’indisponibilità di quelle popolazioni ad accogliere il Vangelo, ma perché lo Spirito lo impediva (!). Scelgono di tornare a Troade e lì, in sogno, scoprono di doversi recare in Grecia: uno uomo, che appare in sogno a Paolo, invoca il loro aiuto. E così accade che attraversano quel confine (lo stretto dei Dardanelli) da cui pregiudizialmente si erano tenuti lontani, e passano in Macedonia.

Il percorso sinodale che stiamo compiendo (con fatica e non sempre troppa convinzione) ci aiuterà (?!) a comprendere come orientare il nostro impegno senza soffermarci nelle lamentazioni per ciò che è stato e non è più tale.
La scelta di Davide, come l’evangelizzazione delle città della Grecia, si riveleranno novità provvidenziali sia per Israele, che godette della guida di un uomo non perfetto, ma “secondo il cuore di Dio”, sia per la storia della Chiesa apostolica, che trovò in quelle regioni grande accoglienza e fu testimone di grandi novità realizzate proprio lì dallo Spirito (le lettere scritte da Paolo alle comunità di Corinto, Tessalonica, Filippi e Colossi ne danno testimonianza).

Cosa significa per noi oggi accogliere l’invito che il Signore rivolge a Samuele o a Paolo?
Ovviamente non lo so, ma in questi due testi troviamo alcuni elementi che ci possono essere utili. L’invito del Signore prima di tutto è quello di alzarci e riprendere in mano ciò che il Signore ci ha donato (l’olio per l’unzione, segno di una benedizione disponibile), per andare lì dove c’è vita in abbondanza (Jesse è padre di sette figli); lì può accadere qualcosa di buono. Ascoltare il grido di aiuto che sale da un’umanità ignorata, che attende un aiuto, uno sguardo, una parola di bene…

Forse occorre saper riconoscere come lasciarsi guidare alla novità che il Signore è pronto a realizzare se noi ci facciamo condurre da lui e abbandoniamo le nostre nostalgie.

Dimissioni

Tra ieri e oggi due persone chiamate a ricoprire incarichi di responsabilità nella cosa pubblica si dimettono: Carlo Fuortes, amministratore delegato della RAI e Carlo Cottarelli, senatore della Repubblica; ambedue lasciano il loro incarico perché hanno riconosciuto essere venute meno le condizioni di esercizio del loro servizio al bene comune.
Più conosciuta – forse – è la vicenda dell’a.d. della RAI per rimuovere il quale – si dice – nei giorni scorsi sia stato approvato dal Governo un Decreto legge ad personam; più personale, ma altrettanto significativa, la scelta del senatore Cottarelli che riconosce il suo servizio in Parlamento meno significativo del poter ritornare ad insegnare in Università.

La scelta di queste due persone ci è stata comunicata da loro stessi come una scelta tesa a difendere la propria dignità personale, perché essi si dichiarano indisponibili a rimanere in un ruolo a qualsiasi costo, magari cambiando “casacca” – come è stato proposto a Cottarelli che ha dichiarato di avere qualche problema con la nuova segreteria del PD (non tanto con la Segretaria) – o soggiacendo a becere e tristi logiche di potere disponibili a risistemarti altrove purché non tu crei problemi e ti fai da parte nel ruolo in cui risulti indesiderato.
Tale scelta ci pone però molti e gravi interrogativi, riconoscendo in entrambi delle persone capaci e competenti nel ruolo che era stato loro assegnato, ma impossibilitate mediante meccanismi perversi a portare il loro contributo. Queste due dimissioni, annunciate provvidenzialmente nell’arco di poche ore, ci fanno cogliere la situazione di crisi presente nelle nostre istituzioni: se due uomini capaci sono impediti dal portare il loro contributo lì dove sono stati posti, ci chiediamo come le nostre istituzioni siano in grado di valorizzare al meglio le competenze personali per il bene comune. Nessuno è così ingenuo da non sapere che ci siano logiche politiche che dominano alcuni ambiti delle istituzioni, ma si vorrebbe sperare che ad alcuni livelli si sia capaci di riconoscere il bene portato da qualcuno riconosciuto come competente anche se non appartenente allo schieramento che, di volta in volta, detiene la maggioranza (non è un problema solo di questo Governo).

Mi risuona nella mente quella frase che Gesù disse ai suoi discepoli: “tra voi però non sia così!” (Cfr. Mc 10). Se le logiche politiche dominanti alcuni ambiti della società civile producono certi obbrobri, mi chiedo se davvero nella comunità cristiana siamo capaci di fare diversamente, se siamo capaci di valorizzare le competenze, la creatività, l’intraprendenza, … oppure se prevalgono anche tra noi le medesime logiche che portano qualcuno a scegliere di andarsene anche senza dimissioni o di continuare a servire la comunità in luoghi in cui le competenze acquisite e riconosciute possano essere meglio valorizzate per il bene comune e per la missione.

E’ un tema su cui non è inutile riflettere e compiere un’attenta verifica.

La preside e la suora

Anche oggi nella mia riflessione mi è capitato di accostare due notizie che, apparentemente, sono slegate tra loro, ma che, a ben vedere, ci raccontano entrambe di una crisi importante che coinvolge persone molto stimate e prese ad esempio.
A Palermo la preside di una scuola intitolata a Giovanni Falcone, premiata dal Presidente della Repubblica per il suo impegno educativo a contrasto della criminalità organizzata, è stata arrestata per aver rubato cibo e apparecchiature elettroniche destinate alla scuola (sembra con la complicità di una dozzina di persone, tra cui il vice preside della stessa scuola).
Nel bresciano una suora molto nota, fondatrice e responsabile di una comunità terapeutica per tossicodipendenti, è stata accusata durante una trasmissione televisiva di usare metodi coercitivi e lesivi della dignità delle persone e, per questo motivo, è finita sotto inchiesta.

Le due vicende sono molto diverse tra loro, ma hanno in comune il fatto che entrambe queste persone avevano ricevuto dei riconoscimenti pubblici per il loro operato e, per questo motivo, sono divenute punti di riferimento per le comunità locali (civili ed ecclesiali).
Accade spesso che queste persone divengano segni di speranza per una comunità: ci si aspetta non solo che continuino ad essere un riferimento esemplare, ma, come conseguenza del riconoscimento ricevuto, si “pretende” la loro impeccabilità e di fronte ai loro errori (siano “solo” peccati o addirittura reati) ci si scandalizza, condividendo un doloroso senso di tradimento.
Questo sentimento nasce dalla delusione profonda rispetto al bisogno che tutti abbiamo di avere davanti a noi degli “eroi”, persone concrete che, in ogni tempo della storia, ci testimonino che è possibile essere uomini e donne pienamente, “al top” delle possibilità che ci sono date; che c’è qualcuno tra noi che ci rappresenta al meglio di ciò che noi potremmo essere, ma che in quanto persone comuni, consapevoli dei nostri limiti, non riusciamo ad essere.
Quando individuiamo “un eroe” pretendiamo che sia per sempre una persona perfetta e dimentichiamo la sua naturale fragilità, rimuoviamo il fatto che anche quella persona, come tutti noi, è esposta all’incoerenza, all’errore, alla tentazione di pensarsi al di sopra della legge, a volte – paradossalmente – proprio per il fatto che gli/le è stato attribuito un riconoscimento che lo/la eleva al di sopra degli altri (“lei non sa chi sono io!“).
Nella Chiesa questa dinamica è conosciuta e si chiama “clericalismo”: più volte il Papa ne ha denunciato la perversione e la natura antievangelica. Non so che nome le si vuole attribuire nella società civile, ma i danni che procura sono i medesimi.

Qual è la cura? Come ne usciamo?
Rinunciamo a pensare di poter avere esempi positivi per evitare le delusioni? Ci immergiamo in un cinismo diffuso – magari definito dai più intelligenti “sano realismo” – per evitare figuracce?

Come accade molto spesso a noi credenti, una pista ce la fornisce la Bibbia quando ci racconta di Pietro: egli è per definizione l’anti-eroe! Ha ricevuto riconoscimenti importanti da Gesù stesso e un ruolo di riferimento dentro la comunità cristiana, eppure la Scrittura non ci nasconde i suoi errori, le sue fragilità, i suoi tradimenti; Paolo stesso lo critica pubblicamente in alcune occasioni, pur riconoscendone il ruolo.
Come si concilia questa apparente contraddizione?
Per Pietro, una volta riconosciuto il suo rinnegamento, rispetto al ruolo di presidenza chiamato a vivere nella comunità ha sempre prevalso l’essere parte della comunità dei discepoli che continuamente devono interrogarsi e convertirsi rispetto al cammino che il Signore mostra loro come necessario. Ci sono dei passaggi raccontati dagli Atti degli Apostoli in cui si vede chiaramente il percorso di conversione di Pietro che, nonostante il suo ruolo, si fida di quanto il Signore manifesta alla comunità intera (la conversione del centurione Cornelio o il Concilio di Gerusalemme) anche quando non corrisponde al suo pensiero o alla sua sensibilità.

Ciò che a volte manca nella nostra società, quando giustamente riconosciamo i meriti e l’esemplarità di una persona, è di tenerla dentro un “noi comunitario” che si assume la responsabilità della sua custodia (in senso affettivo), correzione e crescita. L’esperienza ci insegna che le persone, anche quelle bravissime, non possono essere lasciate sole, ma devono continuare a camminare dentro una comunità (civile o ecclesiale che sia) per continuare a crescere in quella esemplarità che hanno testimoniato.

Ovviamente non so come queste due storie si evolveranno. Coloro a cui spetta questo compito faranno indagini approfondite e valuteranno secondo giustizia.
Di due cose sono però certo: il bene compiuto non viene mai cancellato a causa dell’incoerenza successiva di colui/colei che lo aveva agito; è necessario rafforzare la dimensione del “noi comunitario” (senza facili deleghe) se vogliamo che quel bene possa essere custodito e possa crescere, per diventare effettivamente patrimonio comune, segno di speranza e di umanità piena.

L’altra Pasqua: dove bastano le uova

E’ ora di riconoscere che anche tra coloro che si dicono cristiani esistono due celebrazioni della Pasqua che a volte si intersecano, mentre più spesso viaggiano tranquillamente in parallelo: la celebrazione di coloro che partecipano alle liturgie della settimana santa, partecipano ai sacramenti e la celebrazione di coloro a cui basta conservare/osservare alcune tradizioni che in origine avevano un legame con la liturgia, ma che ora vivono di vita propria.

La vicenda delle uova benedette a Pasqua, più diffusa nel mondo orientale, ma molto radicata in Romagna (forse per le sue antichissime radici bizantine), è sintomatica di questa frattura culturale e religiosa che non riusciamo a sanare.
Per molti secoli, fino al 1955, nella Chiesa cattolica era decaduta l’usanza della celebrazione della veglia pasquale e alcuni riti di questa antica veglia erano stati trasferiti al mattino del Sabato santo. In quella circostanza veniva benedetta l’acqua nuova della Pasqua e, con essa, le uova pasquali.
Con il 1955 (quasi 70 anni fa) e il ripristino della veglia pasquale, non ha più senso benedire le uova al mattino del sabato perché occorrerebbe attendere la benedizione dell’acqua che avviene nella veglia pasquale… ma tutto questo non è stato affatto recepito dalla nostra gente che, nonostante gli avvisi comunicati per tempo, anche questa mattina si presenterà agguerrita (e affannata) per domandare la benedizione delle uova e si lamenterà pesantemente di quei preti che (inutilmente) cercheranno di spiegare il senso delle cose.
Comprendo molto bene i tanti preti che ci hanno rinunciato e corrispondono alle richieste delle persone anche se (da quasi 70 anni) prive di senso sul piano liturgico… Sostengo però quei preti e quegli operatori pastorali che tentano di aiutare le persone a comprendere il senso delle cose, che non si limitano a soddisfare una domanda che nessuno si è preoccupato di educare e di riportare nel suo orizzonte di senso. Abbiamo alle spalle generazioni di persone a cui nessuno ha mai indicato il cambiamento avvenuto e preti che, pensando di fare bene, hanno continuato a mantenere alcune tradizioni, sebbene svuotate del loro senso autentico.
Oggi ricade su noi la responsabilità di far crescere la consapevolezza delle persone: molti apprezzano, ma la sfida più grande si pone con coloro che pretendono di essere cristiani “a modo loro”, così come è stato loro insegnato una volta e interpretano queste indicazioni come un sopruso rispetto alle loro tradizioni. Come fare? Tenere duro o assecondare? Prendersi le ingiurie da chi non vuole comprendere oppure accontentare?

Come ricordava spesso il vescovo Francesco Lambiasi, queste situazioni, e altre ben più gravi di queste, ci indicano il grave deficit di evangelizzazione della nostra gente, la quale si trova a vivere una religiosità senza fede, fatta di gesti e di tradizioni che sopravvivono anche se sganciate dal loro senso originario.
Quella nuova evangelizzazione richiamata da Giovanni Paolo II alla fine del secolo scorso e rilanciata da papa Francesco con la Evangelii gaudium è una sfida ancora tutta da intraprendere e non più rimandabile. Le modalità per attuarla potranno essere molteplici: saranno necessarie alcune scelte di rottura compiute dentro un percorso di accompagnamento significativo che non si accontenti dei placebo devozionali, ma aiuti le persone a riscoprire il tesoro più autentico racchiuso nel Vangelo e nella tradizione della Chiesa.

La Pasqua sembrerebbe un buon momento per ripartire su questo impegno grazie al dono dello Spirito che sarà rinnovato nei prossimi giorni. Auguri!

Condividere il digiuno

Oggi è un giorno di digiuno.
Siamo talmente abituati a corrispondere ad ogni nostro bisogno che questa proposta della chiesa ci sembra una gran fatica. Ho pensato che tutte le fatiche possono apparire più leggere se vengono condivise, se non le viviamo ripiegandoci su noi stessi.

Condivido il digiuno di oggi con moltissime persone aderenti all’Islam, che dal 22 marzo hanno iniziato il Ramadan vivendo ogni giorno un digiuno molto esigente che richiede addirittura l’astensione dal bere acqua.

Condivido il digiuno con i 440 rifugiati recuperati mercoledì scorso dalla nave Geo Barents di “Medici senza frontiere” che per due giorni e due notti sono rimasti in balia del mare senza cibo né acqua, e con i tantissimi che, fuggendo da guerre e carestie, oggi si trovano nelle medesime condizioni.

Condivido il digiuno con tutte quelle persone (ne conosco tante) che per prendersi cura degli altri in famiglia o nel loro lavoro (soprattutto in ambito sanitario) non riescono neppure a fare una pausa per mangiare.

Condivido il digiuno con coloro che ogni giorno faticano a mettere sulla tavola qualcosa da mangiare per loro stessi e per i propri figli e digiunano per consentire ai propri figli di mangiare.

Condivido il digiuno con coloro che devono astenersi dal mangiare perché si stanno preparando ad un intervento chirurgico.

Condivido il digiuno con coloro che oggi non riescono a mangiare perché l’angoscia, il dolore per un lutto, la preoccupazione per i propri figli ha “chiuso il loro stomaco”.

Condivido il digiuno con tutti i cristiani e le cristiane che oggi vivono questo gesto con semplicità, per ricordare che la nostra vita è fragile e si sostiene solamente perché Dio ha cura di noi e sono convinti, come dice la Parola di Dio, che non di solo pane vive l’uomo.

Se questo digiuno mi aiuterà a crescere nella fraternità, nell’umiltà di fronte a Dio e nella verità nella conoscenza di me stesso, allora sarà davvero fruttuoso e mi preparerà ad accogliere il dono grande della Pasqua.

Oltre le buone intenzioni

In questa Pasqua la mia attenzione è caduta su Pietro e sulle parole che ha pronunciato nell’ultima cena: Pietro disse [a Gesù]: “Se tutti si scandalizzeranno di te, io non mi scandalizzerò mai”. Gli disse Gesù: “In verità io ti dico: questa notte, prima che il gallo canti, tu mi rinnegherai tre volte”. Pietro gli rispose: “Anche se dovessi morire con te, io non ti rinnegherò”. Lo stesso dissero tutti i discepoli. (Mt 26-33-34) e nel vangelo secondo Giovanni: Simon Pietro disse: “Signore, dove vai?”. Gli rispose Gesù: “Dove io vado, tu per ora non puoi seguirmi; mi seguirai più tardi”. Pietro disse: “Signore, perché non posso seguirti ora? Darò la mia vita per te!”. Rispose Gesù: “Darai la tua vita per me? In verità, in verità io ti dico: non canterà il gallo, prima che tu non m’abbia rinnegato tre volte. (Gv 13,36-38)… Sappiamo dal racconto come la vicenda si è evoluta: Pietro, così come Gesù aveva preannunciato, ha rinnegato il Signore perché è stato vinto dalla paura, ma, dopo la risurrezione, consapevole del suo peccato, ha confermato il suo amore per Gesù (cfr. Gv 21,15-19) e la sua disponibilità a dare la vita per Lui.

La vicenda di Pietro è molto importante per noi perché ci mostra il volto concreto di un discepolo di Gesù, di un apostolo, pieno di buone intenzioni, ma che non ha compreso il significato pieno della Pasqua di Gesù.
Penso che Pietro fosse assolutamente sincero quando ha pronunciato quelle parole durante l’ultima cena, ma come già era accaduto a Cesarea di Filippo (cfr. Mt 16,21-28), non è riuscito a riconoscere seriamente l’invito di Gesù a rinnegare sé stessi per prendere la propria croce.
Non bastano le buone intenzioni, per quanto sincere, per vivere la Pasqua di Gesù: occorre entrare nella logica del dono totale di sé che il Signore ci mostra prima nei segni della frazione del pane e della lavanda dei piedi (quella che Pietro fa fatica ad accogliere), poi nella realtà della sua morte in croce: “come ho fatto io, fate anche voi!“.

Possa questa Pasqua snidarci dalla posizione comoda di chi si accontenta di proclamare le sue buone e sincere intenzioni per avviarci con fiducia nella sequela di Gesù che ci chiede di condividere con lui il cammino della croce per sperimentare la pienezza di vita della risurrezione.

Buona Pasqua di Risurrezione.

Violenza intollerabile

Non bastano i fischi!
Da educatore mi attendo un messaggio molto chiaro verso un giovane che si permette di eccedere in comportamenti violenti davanti a milioni di spettatori, come se ad un artista fosse tutto concesso.

Non seguo il festival di Sanremo perché la sera sono sempre impegnato, ma questa mattina ho letto i giornali che, accanto alla notizia, riportano le affermazioni del protagonista, il quale afferma di essersi divertito, come se fosse un suo diritto inalienabile.

Accanto a questa notizia, sempre oggi, sui giornali ne ho letta un’altra che riguarda i danni arrecati da un gruppo di giovanissimi ad un oratorio di Vimercate: nei confronti di questi (ancora sconosciuti) una ferma condanna da parte delle istituzioni.
Quale giudizio verso l’azione violenta di un personaggio pubblico che ha compiuto un atto gratuito di devastazione, peraltro alla presenza del Presidente della Repubblica? Cosa penseranno quei giovanissimi di Vimercate se ad un loro “idolo” viene concesso di compiere un atto simile in pubblico senza subirne conseguenze? Non si sentiranno giustificati per quello che loro hanno compiuto nel loro territorio?

I giovani hanno bisogno di “padri” che, senza paternalismi, mettano il punto, che rimarchino la trasgressione e dichiarino le conseguenze di quanto compiuto. Senza questi padri che si assumano la spiacevole responsabilità di richiamare un comportamento ingiustificabile, rischiamo di abdicare ad ogni funzione educativa, abbandonando i nostri giovani allo smarrimento.

Centoquarantadue

Siamo in due, ci divertiamo a condividere i pensieri e a trasformarli in parole

The Starry Ceiling

Cinema stories

Inquietudine Cristiana - Combonianum

FEDE e MISSIONE - UNA SPIRITUALITÀ CRISTIANA MISSIONARIA «Quando il Figlio dell'uomo verrà, troverà la fede sulla terra?»

Simone Modica

Photography, Travel, Viaggi, Fotografia, Trekking, Rurex, Borghi, Città, Urbex

SantaXColombia

La Compagnia senz'anello

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: