Riflessione rivolta a coloro che hanno l’età giusta
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Chi (come me) ha vissuto la sua giovinezza nella seconda metà del XX secolo è stato educato ad una visione tendenzialmente ottimista della storia, una visione in cui i “buoni”, prima o poi, vincono sempre.
Noi siamo nati dopo la sconfitta del nazi-fascismo e nel pieno di un boom economico e di un progresso che sembrava inarrestabile; la storia che abbiamo studiato e vissuto ci ha mostrato grandi vittorie del “bene” sul “male”: abbiamo visto la fine dell’apartheid in Sud Africa e la liberazione di Nelson Mandela; abbiamo studiato i percorsi di indipendenza dei paesi africani dai paesi colonialisti; abbiamo visto la fine della segregazione razziale negli USA e il frutto dell’impegno di persone come Martin Luther King; siamo stati testimoni della caduta del muro di Berlino e della fine della guerra fredda …
La storia che abbiamo studiato e quella che abbiamo vissuto ci ha educato a pensare che inevitabilmente i “cattivi” facciano una brutta fine; che la giustizia prima o poi trionfi; che a un certo punto – come accadeva in tutti i film western – “arriveranno i nostri” e la situazione si ribalterà a favore di chi sembrava ingiustamente sfavorito.
In questi mesi di guerre feroci le cose non sembrano andare affatto bene.
Prima di tutto, nell’ambiguo gioco della polarizzazione, non è così facile capire chi siano i “cattivi” e chi i “buoni”. Ci sono nazioni che hanno subito brutali aggressioni, che a loro volta sono state e sono responsabili di migliaia morti innocenti.
Il numero dei presunti “cattivi” poi si moltiplica e sono sempre di più coloro che si alleano “dalla parte sbagliata” del fronte. Si auspica che, come è accaduto nel secolo scorso, le masse popolari si sollevino in nome della giustizia e della libertà, ma anche quando questo accade in modo straordinario (come in Iran o in Myanmar), i vari “cattivi” continuano a detenere il loro potere con la violenza senza che nessuno sembri poterli contrastare in modo significativo.
Organismi come l’ONU, che nel secolo scorso avevano contribuito al contenimento della violenza, oggi appaiono esautorati dal gioco perverso dei veti incrociati degli stati che nel passato si sono assunti la responsabilità di arbitri, ma che ora risultano parti in causa nel conflitto.
Il mondo, inoltre, sta vivendo delle gravissime crisi globali (la crisi climatica e la conseguente crisi migratoria) che causano milioni di vittime, ma rispetto alle quali nessuno sembra voler prendere seri provvedimenti; una serie di “cattivi” (tra questi ci siamo anche noi europei), che rischiano di ridurre il pianeta in condizioni invivibili per miliardi di persone e per le generazioni future, continuano a fare i loro affari rimandando decisioni urgenti.
I diritti fondamentali delle persone vengono continuamente violati; i capi delle nazioni cercano “modi di dire e di fare” che salvino le apparenze, ma che consentano di operare in una difesa indiscriminata e sfacciata degli interessi nazionali.
Le democrazie di tutto il mondo, che rappresentavano le grandi conquiste politiche del XX secolo, sono in grave crisi. La gente non va più a votare, non crede più nei grandi ideali e neppure nelle ideologie. Le nostre società sono divise in una serie di corporazioni che alimentano ed estremizzano il conflitto nel tentativo di difendere privilegi o ottenere benefici immediati, senza preoccuparsi del bene comune o di elaborare strategie di lungo termine. I partiti (e i sindacati ahimè) si sono ridotti ad essere i rappresentanti di queste corporazioni, indisponibili a qualsiasi cambiamento di ampio respiro che richieda un impegno condiviso: “not in my name“ è lo slogan più diffuso. Tutti cercano il consenso ad ogni costo, anche al costo di alimentare il conflitto sociale, ma quando assumono responsabilità di governo non riescono ad elaborare percorsi significativi che diano una prospettiva di lungo termine e siano la risposta ai problemi reali della gente (in particolare dei più giovani).
In Europa e nel mondo aumentano quelle che – con un neologismo – vengono definite “democrature”, veri e propri regimi autoritari ammessi al potere da un voto popolare che premia sempre di più la protesta ed è sempre meno capace di sostenere una visione che indichi come cambiare le cose.
A fronte di tutto questo, coloro che rappresentano la fascia di età maggioritaria nel Paese (50-60enni), che ovviamente detengono la maggior parte del potere economico e politico, sembrano permanere in un atteggiamento di deresponsabilizzazione e di delega, come se attendessero qualcuno che ribalti la situazione senza che venga chiesto loro di cambiare nulla dello stile di vita, dei privilegi acquisiti, dei programmi elaborati.
Di fronte ai giovani che protestano per la crisi climatica, costoro dimostrano insofferenza; di fronte a coloro che scelgono la via della nonviolenza come alternativa seria alla logica del conflitto, costoro dimostrano disprezzo; di fronte a coloro che invitano al rispetto della legalità, costoro richiamano il realismo dell’economia; … l’unica cosa che conta veramente è che non si cambi nulla e che tutto ciò che minaccia lo status quo sia contrastato ad ogni costo… tanto prima o poi le cose si sistemeranno! Vedrai! Abbi fiducia! E’ sempre stato così!
Se invece le cose non si sistemano da sole o grazie a pochi?
Se invece vincono i “cattivi” e riducono il mondo ad un cumulo di macerie per il dilagare della violenza, o a un deserto di sabbia o di acqua salata per l’indifferenza rispetto all’esigenza della cura della casa comune?
Se invece la gente, stremata per le difficoltà della vita, rinuncia alla democrazia, sostiene la liceità della deroga al rispetto dei diritti fondamentali delle persone, cede alle lusinghe dei populisti e ammette l’instaurazione di regimi totalitari in nome dell’efficienza nel governo?
Se invece scopriamo che i “cattivi” siamo noi che, per difendere i nostri privilegi, ostacoliamo il riconoscimento dei diritti delle altre persone, rimanendo indifferenti di fronte alla loro sofferenza e alle loro richieste di cambiamento?
Tutto questo sta accadendo sotto i nostri occhi, e siamo urgentemente chiamati a domandarci quale sia la nostra responsabilità personale, ecclesiale, politica per agire a favore del bene e contrastare il dilagare del male e dell’ingiustizia.
In questi ultimi giorni di Avvento, mentre risuona ancora la eco dell’invito alla conversione di Giovanni Battista, forse anche noi possiamo fare qualcosa per cambiare le cose.
Se non ci accontentiamo di rimanere scandalizzati di fronte al sostanziale fallimento della COP28 o alla difficoltà dei capi si stato di comporre soluzioni di pace per la guerra in Ucraina o in Israele; se non ci accontentiamo di reagire sui social con dei likes o delle chiacchiere da bar per condividere tutto il nostro sdegno e la nostra rabbia; se non siamo così ingenui da pensare che le cose potranno cambiare da sole o per il contributo di pochi, forse possiamo recuperare quello slogan che, nella nostra giovinezza, ha guidato molto del nostro impegno e che ancora guida l’impegno di coloro che non si sono rassegnati all’ingiustizia: cambiamo noi per cambiare il mondo!
Quello che abbiamo studiato da giovani o di cui siamo stati testimoni, al di là delle riletture mitiche e romantiche, è avvenuto attraverso l’impegno perseverante di moltissimi uomini e donne che hanno creduto nella giustizia e quotidianamente si sono sacrificati perché questa potesse essere riconosciuta.
Quale sarà il nostro contributo perché anche in questa fase della storia in cui siamo noi ad avere buona parte della responsabilità, non vincano i “cattivi”?