E se vincessero i “cattivi”?

La bellezza è per tutti

Duomo di Bobbio

Mi è capitato di vivere un’esperienza formativa (un CFM per chi sa cosa significhi) con una trentina di capi scout nella zona di Bobbio (PC) e, grazie alla calda accoglienza del parroco, abbiamo potuto “abitare” per un po’ di tempo lo splendido Duomo di Bobbio.
Accade spesso che, di fronte alla magnificenza delle nostre chiese, molti – soprattutto tra i giovani – rimangano scandalizzati, giudicando uno spreco ingiustificabile il denaro speso per rendere così belli certi luoghi perché – affermano giustamente – Dio non ne ha affatto bisogno.

In effetti la bellezza di tanti luoghi religiosi che abbiamo ereditato dalla storia, opera di grandi artisti, aveva un duplice scopo: la glorificazione di Dio, offrendo a lui il meglio delle nostre capacità creative e la possibilità per tutti, anche per i poveri, di poter godere della bellezza. Mi fermo su questo secondo spunto.
In un tempo in cui i poveri vivevano davvero miseramente e la bellezza dell’arte era riservata ai ricchi, adornare le chiese di opere d’arte e farne dei luoghi belli era considerato un atto di giustizia, perché le chiese erano di tutti e accessibili a tutti e proprio lì tutti, anche coloro che solitamente vivevano in luoghi squallidi, potevano sentirsi a casa, potevano sentire che in quel luogo anche per loro era disponibile la bellezza.

Il CFM nel Duomo di Bobbio – novembre 2023

Sordi al dolore

Cosa può venire di buono da tanta violenza? Come potranno vivere coloro che sopravvivranno a questa carneficina? Come non potranno coltivare in sé stessi ancora più odio e desiderio di vendetta generando altra violenza?… Ma tutti questi sono pensieri a cui si sceglie di rimanere sordi.

Anche i pacifisti muoiono

E’ giunta la conferma della morte di Vivian Silver, una pacifista israeliana molto impegnata nella Striscia di Gaza e uccisa dai miliziani di Hamas nel blitz del 7 ottobre scorso. La reazione a questa notizia è di dolore e sconcerto: accade così quando una persona buona viene travolta dalla violenza.
Siamo abituati a pensare che i pacifisti manifestano in piazza.
Sono tanti, invece, che scelgono di scendere nelle pieghe del conflitto per tentare di costruire ponti di dialogo e di amicizia tra persone diverse e in lotta, per indicare una alternativa alla lotta armata.
Coloro che vivono nel conflitto con il desiderio di pace sono consapevoli che possono diventarne vittime, nello stesso modo di chi combatte con le armi.
Anche se questa morte può apparirci più ingiusta o a qualcuno potrebbe sembrare che la morte livelli tutto (davanti alla morte siamo tutti uguali – dice qualcuno), dobbiamo riconoscere che questa morte ha un colore diverso, non tanto per l’esito violento che condivide con migliaia di vittime, ma per i motivi che hanno portato Vivian a scegliere di essere lì in quel momento. Poteva scegliere di vivere ovunque in Israele e nel mondo; ha scelto di abitare presso la Striscia di Gaza perché ha voluto essere prossima alle persone che erano costrette ad abitare in quel luogo terribile, per rendersi presente come volto amico e fraterno.
Il Signore ti conceda pace Vivian, a te e a tutti coloro che piangono la tua morte.
Grazie per la tua testimonianza.
Siamo certi che il bene seminato non andrà perduto.

Servi, amici, figli

Amici
Pur essendo suoi servi, il Signore usa benevolenza nei nostri confronti e desidera costruire con noi una relazione amicale. Il Vangelo è l’annuncio della bontà misericordiosa di Dio che in Gesù, prima ancora che come Padre, si rivela come un “Padrone buono” e attento alle nostre esigenze, tanto da trattarci da amici fidati (vedi la parabola dei talenti in Mt 25).
Due testi evangelici sono particolarmente evocativi per accompagnarci in questo passaggio. Il primo è contenuto all’interno di un invito pressante alla vigilanza: Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità io vi dico, si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli (Lc 12,37). Qual è il padrone che tornando dalle nozze si mette a servire i suoi servi se non colui che li considera degli amici con cui vuole condividere la gioia delle sue nozze?
L’altro testo viene direttamente dalle parole rivolte da Gesù ai discepoli durante l’ultima cena: Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici. Voi siete miei amici, se fate ciò che io vi comando. Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi. Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga; perché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda. Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri. (Gv 15,13-17).
Attraverso l’ascolto della Parola di Gesù e nella relazione confidente con lui scopriamo che il Signore ci chiama ad essere suoi amici invitandoci a vivere una reciprocità fatta anche di gesti gratuiti (Cfr. Gv 12,1-8).
Da parte nostra questa amicizia chiede di essere vissuta nell’osservanza dei suoi comandamenti, riconoscendo in essi non solo la via della giustizia, ma la volontà di colui che vuole essere nostro amico. Il richiamo è ancora all’osservanza dei comandamenti, ma la motivazione è molto diversa: se la nostra relazione non evolve in amicizia, possiamo rimanere servi obbedienti, ma rischiamo di non partecipare alla gioia del Signore.

Io che cosa posso fare? /2

Le notizie e le immagini dalla guerra con la loro violenza dilagante ci lasciano attoniti, annichiliti. Ci sentiamo travolti, impauriti … il senso di impotenza ci pervade. Per noi uomini e donne dell’Occidente, abituati a pensare che tutto abbia una soluzione, che c’è sempre qualcosa che si possa fare per risolvere le situazioni, questo senso di impotenza risulta insopportabile. Cosa possiamo fare???
Già lo scorso anno, a più di un mese dall’inizio della guerra in Ucraina, mi ponevo questa stessa questione e avevo individuato alcune piste che, in quella situazione, mi sembravano adeguate per rispondere alla domanda che ci portiamo nel cuore (Io che cosa posso fare?). Per molti aspetti quelle riflessioni e quelle proposte rimangono valide, ma di fronte alle violenze che stanno insanguinando il Medioriente e che minacciano di allargare il conflitto ad altre aree della regione, mi sento di ridurre la risposta a tre impegni essenziali.

1. Custodire la compassione. Sembra banale, ma il nostro spirito ha dei meccanismi di difesa che reagiscono per proteggerci. A fronte alla pervasività delle notizie e delle immagini violente e scioccanti, una reazione naturale ci porta a chiuderci, a schermarci, facendoci rifugiare nell’indifferenza (se vuoi leggi L’indifferenza come difesa).
Il primo impegno importante è quello di contrastare questo meccanismo spontaneo scegliendo di rimanere umani, scegliendo di soffrire insieme a tutti quelli che soffrono, scegliendo di non cedere alla tentazione dell’indifferenza, scegliendo la compassione. Noi siamo abituati a spegnere o attenuare il dolore per continuare la nostra vita normale (abbiamo molti analgesici che ci consentono di farlo). Qui si tratta, invece, di scegliere di convivere con un dolore che ci impedisce di custodire la nostra “normalità” mediante l’indifferenza. E’ una lotta contro noi stessi, ma una lotta necessaria per vincere la tentazione diffusa di voltarsi dall’altra parte accontentandosi di un giudizio superficiale (“sono tutti matti!”) o preoccupandosi solo delle conseguenze che potrebbero ricadere su di noi e sul nostro “stile di vita”.
Molti, da giorni, si soffermano più o meno ossessivamente a guardare e riguardare le immagini della violenza agita dalle parti in conflitto; questo atteggiamento può solo alimentare la nostra rabbia o la nostra depressione.
Una buona modalità per custodire e alimentare la compassione, invece, è quella di ascoltare le storie di chi sta vivendo e condividendo da entrambi i lati del fronte questa tragedia, senza accontentarsi dei numeri delle vittime (morti e feriti) riportati dai bollettini di guerra. In questo video, per esempio, si può ascoltare l’appello struggente della mamma di Laor, un ragazzo di venti anni ucciso da Hamas lo scorso 7 ottobre, che invita a non cedere alla logica della vendetta.

2. Portare la compassione nella preghiera. Scegliere di stare nel dolore, porsi volontariamente in questa situazione scomoda, ci porta a domandare aiuto per i fratelli e le sorelle che sono vittime delle conseguenze della violenza e dell’ingiustizia. In questi giorni, mentre prego i Salmi, soprattutto quelli in cui si invoca aiuto da Dio, non posso non mettere quelle parole in bocca alle tante persone che stanno soffrendo per la guerra in Israele, in Palestina, in Ucraina, in Myanmar, in Siria … La compassione mi pone di fronte a Dio circondato da una moltitudine di fratelli e sorelle che, anche tramite la mia invocazione, elevano a Dio il loro grido di aiuto. In questi giorni l’incontro quotidiano con il Padre, per Cristo, nello Spirito non mi fa mai essere solo; come me non ci sono solo le persone che amo, quelle che mi sono affidate nel ministero, quelle che mi chiedono esplicitamente di pregare per loro, ma anche tutti coloro, i cui nomi solo Dio conosce, a cui scelgo di legare la mia vita in un vincolo di fraternità universale, quello che corrisponde al sogno di Dio e quello di cui la Chiesa è chiamata ad essere sacramento (segno e strumento) per tutto il genere umano (Cfr. Lumen Gentium 1). Anche questa è una lotta, contro la tentazione che mi porta a desiderare la preghiera come un’oasi di pace e di consolazione; accettare di vivere una preghiera che non è tranquilla, perché abitata da tante grida di dolore e aiuto, mi aiuta a viverla in modo più autentico, come se trovassi una conferma in ciò che il Padre desidera da noi.

3. Costruire fraternità. Quella fraternità, frutto della compassione vissuta nella preghiera, per essere efficace deve tradursi in un impegno a realizzare gesti di fraternità. E’ come nella parabola del buon samaritano (Lc 10): non è sufficiente sapere come funzionano le cose; Gesù ci dice: va’ e fai anche tu così!
Dov’è odio fa’ che io porti l’amore pregava san Francesco d’Assisi. Per molti motivi, io non posso andare là dove si combatte, ma posso costruire fraternità qui, provare a cambiare le cose nelle relazioni che io vivo già o che posso scegliere di vivere.
Bonum diffusivum sui, dicevano i latini; il bene si diffonde per forza propria, potremmo tradurre noi. Anche il male ha questo potere contagioso. Ma noi che abbiamo creduto nella potenza della risurrezione, nella vittoria del Signore della vita sulla morte, noi crediamo che il bene che operiamo, anche se in modo umile, silenzioso, addirittura nascosto, abbia un potere che gli consente di diffondersi, di contrastare l’odio e la violenza, di aprire vie di speranza e di pace. Scegliere la fraternità, la riconciliazione, la giustizia, il perdono, la solidarietà fattiva, quella che mi porta a rinunciare ai miei diritti perché altri possano avere il necessario (Evangelii gaudium 190), … tutto questo ha un grande valore, contribuisce effettivamente a cambiare il mondo e a contrastare la logica della guerra.

Scegliere di vivere queste tre cose essenziali significa decisamente schierarsi dalla parte di Dio e dalla parte della pace. E sono alla portata di tutti.

Colpevole di equidistanza

C’era un tempo in cui, in situazione di conflitto, l’equidistanza tra i contendenti era considerata la virtù propria del mediatore, di chi desiderava impegnarsi affinché il conflitto venisse superato.
Nel tempo della semplificazione della comunicazione, le sfumature creano imbarazzo e si pretende a tutti i costi che ognuno si schieri. Chi, invece, sceglie di non schierarsi, riconoscendo la complessità della situazione e desiderando contribuire al processo di riconciliazione e di pace che, si spera, possa risolvere il conflitto, viene accusato di colpevole equidistanza, di cerchiobottismo, di non avere le idee sufficientemente chiare sulla realtà.
Ancora una volta questa accusa è stata rivolta al Papa perché non si è schierato chiaramente (vedi l’accusa del filosofo francese Alain Finkielkraut e i commenti di M.A. Calabrò, vaticanista di Huffpost) dalla parte delle vittime israeliane, mentre esprimeva preoccupazione per le gravi conseguenze dei bombardamenti a Gaza (anche io semplifico molto, chiedo scusa).

Mi sono chiesto perché emerga sempre maggiormente l’esigenza di questo schieramento, fino a diventare una pretesa. Era accaduto lo stesso per la guerra in Ucraina, anche se la situazione era molto diversa.
In questo caso specifico mi sembra che tale pretesa sia collegata soprattutto alla richiesta di giustificare la violenza agita dalle parti.
Hamas ha la pretesa di attribuire la sua oscena e ingiustificabile violenza contro gli israeliani appellandosi alle ingiustizie subite dai palestinesi nella Striscia di Gaza, nei territori della Cisgiordania e agli abusi operati dai coloni israeliani sulla spianata della Moschea di Al-Haqsa. E’ tutto vero e ampiamente documentato (qui la testimonianza di una volontaria di Operazione Colomba), ma in nessun modo questi gravi torti subiti possono giustificare la gravità della violenza che è stata agita contro persone innocenti; nessuno – credo – si può schierare dalla parte di Hamas (che non è il popolo palestinese!).
Lo Stato di Israele per parte sua, ferito per la morte di centinaia di persone innocenti uccise barbaramente dai miliziani di Hamas e umiliato per la sconfitta subita, ha avviato quasi immediatamente una violenta azione militare con bombardamenti aerei indiscriminati e privazione di beni essenziali, azione che ha già causato la morte e il ferimento di più del doppio delle persone uccise da Hamas il 7 ottobre, superando ampiamente quella logica “dell’occhio per occhio e dente per dente“, inaccettabile per i cristiani (Cfr. Mt 5,38-42), ma prevista dalla Bibbia per moderare la vendetta in tempi in cui le faide erano frequenti. Come si fa a schierarsi dalla parte di Israele nonostante la violenza subita dall’attacco di Hamas se a sua volta, senza la minima titubanza, si è reso responsabile della morte di moltissimi innocenti a Gaza?

Come ci si può schierare in questa situazione quando è evidente a tutti, anche agli analisti più avveduti, che non c’è alcuna via d’uscita nel perpetrare la logica della violenza? Perché non riconoscere che chi cerca di rimanere equidistante (ammesso che sia proprio così) non è affatto una persona confusa o incapace di riconoscere la gravità degli atti subiti dagli innocenti di entrambe la parti in lotta, ma una persona che cerca di indicare un’altra via, una via non semplice in una situazione che è il risultato di anni di ingiustizie e di conflitto, di violenze e di vendette, la via della giustizia sola condizione per sperare nella pace?

Purtroppo mi sembra di capire che coloro che prendono decisioni sul campo non abbiano altro interesse se non l’annientamento del nemico, illudendosi di poter estirpare il male che il nemico rappresenta attraverso un’azione risolutiva che contempla l’uso indiscriminato della violenza, considerata un male necessario per ottenere il risultato sperato. La storia ci insegna che questa è un’illusione terribile e che questo modo di pensare e agire alimenta sempre di più il conflitto fornendo nuove motivazioni a chi, di volta in volta, vestendo i panni della vittima si sente giustificato nell’azione vendicativa.

Era il 1° gennaio 2002, da pochi mesi il mondo aveva assistito attonito all’attentato alle Torri Gemelle di New York ad opera di un gruppo di terroristi guidati – sembra – da Osama bin Laden. In quel giorno Giovanni Paolo II, celebrando la Giornata mondiale di preghiera per la pace, lanciava questo messaggio di luce, molto difficile da accogliere mentre moltissimi erano impegnati a cercare di individuare e punire i responsabili di quell’attacco tremendo: non c’è pace senza giustizia; non c’è giustizia senza perdono.
La vera pace, pertanto, è frutto della giustizia, virtù morale e garanzia legale che vigila sul pieno rispetto di diritti e doveri e sull’equa distribuzione di benefici e oneri. Ma poiché la giustizia umana è sempre fragile e imperfetta, esposta com’è ai limiti e agli egoismi personali e di gruppo, essa va esercitata e in certo senso completata con il perdono che risana le ferite e ristabilisce in profondità i rapporti umani turbati (…)
Il terrorismo si fonda sul disprezzo della vita dell’uomo. Proprio per questo esso non dà solo origine a crimini intollerabili, ma costituisce esso stesso, in quanto ricorso al terrore come strategia politica ed economica, un vero crimine contro l’umanità.
Esiste perciò un diritto a difendersi dal terrorismo. E’ un diritto che deve, come ogni altro, rispondere a regole morali e giuridiche nella scelta sia degli obiettivi che dei mezzi. L’identificazione dei colpevoli va debitamente provata, perché la responsabilità penale è sempre personale e quindi non può essere estesa alle nazioni, alle etnie, alle religioni, alle quali appartengono i terroristi. La collaborazione internazionale nella lotta contro l’attività terroristica deve comportare anche un particolare impegno sul piano politico, diplomatico ed economico per risolvere con coraggio e determinazione le eventuali situazioni di oppressione e di emarginazione che fossero all’origine dei disegni terroristici. Il reclutamento dei terroristi, infatti, è più facile nei contesti sociali in cui i diritti vengono conculcati e le ingiustizie troppo a lungo tollerate. Occorre, tuttavia, affermare con chiarezza che le ingiustizie esistenti nel mondo non possono mai essere usate come scusa per giustificare gli attentati terroristici. (Messaggio per la giornata mondiale di preghiera per la pace 2002)

Quelle espresse da Giovanni Paolo II sono parole che, lette a più di venti anni di distanza, in un contesto altrettanto drammatico, ci mostrano una via chiara: non si tratta di equidistanza, ma di superare la logica degli schieramenti per intervenire sulle cause del conflitto con il desiderio di risolverle, al fine di ottenere giustizia e pace.
Il riconoscere l’esigenza del perdono per arrivare ad una vera giustizia è il vero contributo che donne e uomini straordinari possono portare per edificare la pace. Finché si rimane fermi nella rivendicazione del male subito, si troveranno sempre valide motivazioni per giustificare il conflitto, con tutti i mezzi disponibili; tale atteggiamento conduce a disumanizzare il nemico, che diviene un mostro da eliminare in ogni modo possibile, senza scrupoli.

Benvengano dunque persone che aiutano a vedere le cose con occhio diverso, a tenere in mano il bandolo della matassa con il desiderio di sbrogliarla; benvengano persone che non hanno la preoccupazione di schierarsi per riconoscere a qualcuno il primato nell’essere vittima e il conseguente diritto alla vendetta, ma che sono testimoni tra le parti del dolore subito da altre persone innocenti; benvengano maestri di perdono e di riconciliazione che indicano la via per uscire dal pantano generato dalla violenza che innesca spirali mortifere senza via d’uscita.
Se a qualcuno queste persone possono sembrare inopportune o scomode, ingenue o illuse, io credo che invece siano benedette, soprattutto se agiscono mosse dall’amore per la giustizia, per la pace e per la vita. Dio sa quanto ne abbiamo bisogno!

Fare i conti con i limiti

Ha superato ogni limite immaginabile la violenza di Hamas che ha ucciso centinaia di persone innocenti. Non riesce a darsi dei limiti neppure la reazione di Israele che, volendo annullare la minaccia rappresentata da Hamas, ha assediato Gaza tagliando i rifornimenti di beni essenziali e bombardando un territorio molto densamente abitato, causando migliaia di morti e di feriti.
La vicenda che drammaticamente sta preoccupando tutti noi in questi giorni ci porta a fare i conti con il tema del limite che ognuno di noi dovrebbe imporsi nel suo agire.
Purtroppo, in un contesto culturale in cui dominano il soggettivismo e l’individualismo, ogni limite posto all’agire viene interpretato come un’insopportabile limitazione della libertà individuale, e viene rifiutato.

Invece, come per ogni realtà esistente, anche l’uomo ha bisogno di limiti per definirsi, per comprendere chi lui sia concretamente, per non ridursi ad un’idea astratta.
Per fare i conti con la necessità e l’opportunità di un limite, domani vivremo una giornata di digiuno. Il digiuno è un’antica azione terapeutica che ci aiuta a sentire con forza il nostro limite, limitando la soddisfazione dei nostri bisogni essenziali e aiutandoci a diventare consapevoli della nostra debolezza (il nostro limite estremo).

Ognuno di noi è chiamato a fare i conti con il limite del suo agire, un limite non definito dal rispetto teorico per la libertà dell’altro, ma, piuttosto, dalla ricerca del bene comune che mi chiama a scegliere ciò che è buono non solo per me, ma per tutti.

E’ il primo passo per la pace.

Terapia eucaristica

La parabola dei vignaioli omicidi, ascoltata domenica scorsa, rappresenta una grande provocazione per tutti coloro che vivono nella relazione della fede: che cosa desidero trattenere per me di ciò che mi è stato affidato? Che cosa faccio fatica ad offrire al Signore del frutto del mio impegno?

Ho riflettuto a lungo e ho trovato qualcosa che, stupidamente, vorrei trattenere, difendere da chi potrebbe “rovinare” ciò che io mi sono impegnato a costruire: è il frutto di un lungo impegno e di grande fatica; lì c’è qualcosa di me e faccio fatica a condividerlo anche con chi me lo ha affidato … perché non mi fido di come potrebbero trattarlo.
A mente fredda riconosco la stupidità di questo pensiero: ciò a cui sono legato non è mio, ed è proprio bene che non lo sia perché solo se sarà restituito a chi me lo ha affidato potrà essere utile, potrà servire al suo scopo… eppure il timore rimane.
Fatte le dovute e rispettose differenze, penso che questo sia il pensiero di molti genitori che sanno di dover lasciare andare i loro figli, che sanno che è per questo che li hanno educati e cresciuti, che sanno che proprio questo è il loro bene … ma un certo timore rimane, il legame è difficile da sciogliere o anche solo da allentare.

Mi sono chiesto in questi giorni: come si cura questo legame insano? come si cura questa paura che ci pone sulla difensiva fino alla violenza di cui ci parla la parabola?
Mi è venuto in mente che ogni volta che celebriamo l’eucaristia noi offriamo a Dio il frutto della terra e del nostro lavoro, perché lui li faccia diventare il sacramento della Pasqua di Gesù, il sacramento del suo corpo dato e del suo sangue versato. Il dono che riceviamo da Dio è molto di più grande di ciò che a lui offriamo, eppure la nostra offerta è la condizione che consente a Dio di operare.

Ho pensato che questa è la terapia che il Signore ci ha messo a disposizione.
Nella dinamica eucaristica (che non appartiene solamente al rito, ma che dovrebbe essere il paradigma della nostra esistenza di credenti) noi sperimentiamo che ciò che offriamo al Signore come frutto del nostro impegno e della nostra fatica viene trasformato e diviene pienamente efficace, capace di trasformare la realtà in un modo che noi non saremmo in grado di fare. Quel pane non sarà più solo un nutrimento per chi se ne ciba; non sarà neppure semplicemente il simbolo di una fraternità solidale per chi lo condivide; diventerà, per grazia di Dio, il dono che ci concede la vita eterna.

Un sogno per il Medio Oriente

Centoquarantadue

Siamo in due, ci divertiamo a condividere i pensieri e a trasformarli in parole

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FEDE e MISSIONE - UNA SPIRITUALITÀ CRISTIANA MISSIONARIA «Quando il Figlio dell'uomo verrà, troverà la fede sulla terra?»

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