Mi è capitato altre volte di cogliere dei collegamenti inusuali e discutibili tra le notizie che vengono riportate dai quotidiani. In questi giorni molti plaudono all’intelligente soluzione che ha finalmente posto la Basilica di san Marco a Venezia al riparo dal fenomeno dell’acqua alta: un sistema di paratie di cristallo difende questo straordinario edificio monumentale dall’ingresso dell’acqua, capace di causare innumerevoli danni. E’ giusto gioire quando l’intelligenza e la creatività delle persone risolvono problemi.
La la Basilica Patriarcale di Venezia non è l’unico tesoro minacciato dall’acqua. Ho ancora negli occhi le immagini che qualche settimana fa ci mostravano le condizioni delle popolazioni del Pakistan.
E’ di questi giorni la notizia di centinaia di persone recuperate in mare mentre erano in pericolo e la relativa difficoltà dei governi, in particolare quello italiano, ad accoglierle riconoscendo il valore della vita di queste persone bollate semplicemente come illegali, senza domandarsi seriamente cosa abbia spinto ognuno di loro ad intraprendere quel viaggio così pericoloso.
L’acqua nella Scrittura è spesso considerata come elemento da cui essere salvati. Celebre è il racconto che leggiamo ogni anno nella notte di Pasqua dell’azione mirabile di Dio intervenuto per salvare il suo popolo nel passaggio del Mar Rosso. Ma che dire del profeta Giona, o dello stesso san Paolo che per tre volte ha vissuto l’esperienza del naufragio? O dei discepoli di Gesù che attraversando il Lago di Tiberiade, pur essendo esperti pescatori, si trovano in pericolo di morte?
Salvare dall’acqua è una delle azioni che rivelano la misericordia di Dio, il suo amore e il valore che attribuisce alla nostra vita. Ci sono molti “tesori” che si possono salvare, per i quali mettere in campo ingegno, creatività, risorse economiche e misericordia. E quando non considereremo scartabile o residuale nessuno di questi tesori – preziosi agli occhi di Dio – allora potremo davvero gioire e fare festa perché abbiamo saputo dare il meglio di noi stessi, perché abbiamo rivelato lo splendore della nostra umanità.
La guerra in Ucraina continua con le tragedie che provoca ogni giorno. Viviamo il rischio di abituarci nel fare quotidianamente i conti con le morti, le violenze, gli abusi di ogni tipo; il nostro animo non riesce a stare in uno stato permanente di dolore e di sgomento di fronte all’orrore che la guerra provoca; per questo si crea come un callo che ci difende, ci scherma, ci impedisce di venire travolti dalla sofferenza: è un meccanismo di difesa naturale. Di conseguenza ci troviamo a derubricare la portata delle notizie che riceviamo e le releghiamo in un sottofondo che, sebbene tristemente, caratterizza la nostra vita, a cui non facciamo più caso, come chi abita vicino ad una ferrovia non registra più il rumore dei treni che transitano.
A fronte di questa situazione, che rimane gravissima, si stanno mobilitando diverse realtà della “società civile” le quali, volendo sollecitare i governi ad un approccio diverso sulla questione del conflitto russo-ucraino, senza rimanere prigionieri del sistema binario rappresentato dalle sanzioni economiche e dal sostegno alla resistenza ucraina mediante l’invio sempre più massiccio di armi, scenderanno in piazza a manifestare il desiderio di pace sia nel prossimo weekend che nella giornata del 5 novembre. Rispetto a queste manifestazioni, sinceramente, nutro alcuni dubbi.
Da una parte – come affermano molti sostenitori delle manifestazioni – ritengo doveroso riportare all’attenzione pubblica la prospettiva della pace; dall’altro ritengo ingenuo e anche un po’ “borghese” accontentarsi di andare in piazza a protestare contro la guerra. Chiedendo scusa anticipatamente per l’evidente rischio di banalizzare, credo che non sia più il tempo per urlare “cattivo Putin” e “poverini gli Ucraini” o, peggio, “fate i bravi, non litigate più e fate la pace“: questo modo di manifestare (chiedo ancora scusa per la parodia) sarebbe inutile e offensivo per chi si trova a soffrire quotidianamente per le conseguenze della guerra. Ritengo, invece, che questo sia il momento per compiere un passo in avanti, per fare delle proposte che possano effettivamente avviare un processo di pace che richiede ascolto effettivo tra le parti e disponibilità a mediare, con una prospettiva a breve e medio termine.
Ho letto con interesse su “Avvenire” sia l’intervento del prof. Stefano Zamagni che l’appello di undici intellettuali (anche se con un po’ di disappunto nel vedere solo una donna tra i firmatari), i quali propongono dei passi concreti per avviare un negoziato che conduca effettivamente alla pace, intesa – come spiega bene Zamagni nel suo testo – come pace positiva e non semplicemente come cessazione del conflitto (Il fine del negoziato non può limitarsi a conseguire una pace negativa nel senso di Johan Galtung che, già nel 1975, introdusse la distinzione, divenuta poi celebre, tra pace negativa e pace positiva. (…). Mentre la prima fa riferimento all’assenza di violenza diretta (‘al cessate il fuoco’, come si usa dire), la seconda fissa le condizioni che servono per aggredire le cause della guerra).
L’altra attenzione che dobbiamo avere, per non cedere ad una logica “borghese” nel manifestare per la pace, rimane quella già richiamata nei mesi passati e che può essere espressa in queste domande: cosa sono disponibile a cambiare nella mia vita per contribuire alla pace? In che cosa si manifesta il mio impegno per la pace riguardo alle mie priorità, al mio modo di usare il tempo, il denaro, le cose… come incide nella mia vita il mio impegno per la pace? Quali proposte concrete per noi in queste manifestazioni? Penso ai tanti che si sono impegnati nell’accoglienza dei profughi: la loro vita è cambiata, si sono fatti carico di una presenza per testimoniare il volto di un’umanità che non è ostile; penso ai molti che sono andati in Ucraina per condividere il dolore della guerra, per stringere mani, per testimoniare la prossimità a chi soffre le drammatiche conseguenze della guerra; penso ai tanti che si sono impegnati fattivamente nella raccolta viveri e di materiale necessario … penso a chi quotidianamente prega per la pace, che sta di fronte al Signore con fiducia per condividere con Dio il sogno della pace e della fraternità, della giustizia (come ci ricordava il vangelo della messa di ieri) …
Ma io e tutti quelli che sceglieranno di andare in piazza a manifestare il loro desiderio di pace, noi, siamo disponibili a farci toccare personalmente dalla tragedia della guerra, a “riconoscere l’abisso del male nel cuore della guerra” (FT 261)? Mi piacerebbe che, accanto agli appelli e agli inviti per i governi, chi scende in piazza portasse l’adesione personale ad una proposta concreta che incide sulla sua vita e che contribuisce al processo di pace. Senza questa disponibilità a mettersi in gioco personalmente, la manifestazione per la pace non solo sarà inefficace rispetto agli obiettivi che si pone, ma sarà anche considerata ingenua e superficiale da coloro che sono i destinatari dei nostri appelli. Certamente deve cessare il conflitto, devono tacere le armi, ma occorre indicare la strada per costruire la pace, dimostrando la disponibilità a percorrerla anche noi insieme a coloro che oggi si considerano nemici.
Il 25 settembre 2022 non potrò esercitare il mio diritto/dovere di voto nelle elezioni politiche, ma non sono un astensionista. Da mesi era previsto che in quei giorni sarei stato in Terra Santa per un pellegrinaggio organizzato dal Seminario; purtroppo la caduta del Governo e la repentina convocazione delle consultazioni elettorali mi mettono nelle condizioni di non poter votare e me ne dispiace molto. Questo breve post rappresenta un tentativo (vano probabilmente) di non essere computato tra coloro che in quel giorno si asterranno dal voto e, nel mio piccolo, un caldo invito a tutti coloro che possono farlo ad andare a votare. Credo nella democrazia nonostante la sua evidente fragilità; essa ci chiama alla responsabilità di sentirci parte, anche con il voto, della costruzione del bene comune.
Le conseguenze della guerra dilagano, accompagnate da quelle generate dalla crisi climatica. Con voce sommessa, per non rovinare la spensieratezza dell’estate e la voglia di divertirsi (e di spendere denaro), ci stanno dicendo che si sta preparando un autunno/inverno molto difficile sul piano economico e sociale. Qualcuno si era illuso di poter rimanere telespettatore anche di questa guerra, come delle tante di cui negli anni abbiamo più o meno distrattamente avuto notizia; invece, poiché tutto è connesso, presto dovremo fare i conti con una situazione inedita, che richiederà delle scelte importanti non solamente ai governi dei vari paesi, ma anche ai singoli cittadini. In questo testo mi limito a richiamare (ancora una volta) quale possa (debba) essere il modo in cui vivere la situazione difficile che ci si presenterà presto; riassumo tutto intorno a tre parole: sobrietà, democrazia e fraternità, anche queste strettamente connesse tra loro.
Sobrietà Nelle prossime settimane (anche nei prossimi giorni) dovremo fare i conti con la mancanza di alcune risorse fondamentali; anche se in questa parte del mondo non siamo abituati neppure a pensarlo, dovremo essere consapevoli che non ci sarà una disponibilità incondizionata e illimitata di gas, acqua e cibo e che comunque, diminuendo la disponibilità, i prezzi di alcuni beni essenziali non saranno accessibili a tutti. I governi dovranno fare delle scelte, privilegiando alcuni (le industrie, per esempio, al fine di conservare i posti di lavoro) a sfavore di altri (i privati e il riscaldamento domestico), richiamando al principio del bene comune. A fronte di questa situazione potremo arrabbiarci, potremo subire quanto accade con spirito di rassegnazione, oppure potremo fare una scelta di sobrietà, diventando parte attiva di un processo che potrà essere più sostenibile se vedrà la partecipazione di tutti. Ho sentito che in Germania, per il prossimo inverno, stanno pensando di organizzare luoghi comuni riscaldati in cui radunare le persone durante la giornata, per far fronte alla crisi del gas. Ogni crisi, se non subita, può stimolare una grande creatività in cui ognuno di noi può tirare fuori il meglio di sé e trasformare una crisi in un’opportunità. La sobrietà nell’uso delle risorse, forse sarà anche un modo per imparare a vivere secondo uno stile più sostenibile. Tale prospettiva però non sarà perseguibile se le persone non si sentiranno corresponsabili di un processo in cui è importante che ognuno faccia la sua parte, soprattutto a fronte di pesanti sacrifici che saranno richiesti. Questo percorso non sarà perseguibile se non riscopriremo i fondamenti della nostra democrazia.
Democrazia Molte delle guerre di questi ultimi 70 anni (e questa non fa differenza) sono state combattute in nome della democrazia (pensiamo a quella del Vietnam o a quella dell’Iraq, per non parlare della Siria). Abbiamo ormai compreso che la democrazia non si può esportare, ma non abbiamo ancora compreso che, per chi apprezza tale ordinamento, è un dovere testimoniarla e custodirla dalle sue degenerazioni. A fronte di popoli che combattono per difendere un sistema democratico dall’aggressione di sistemi dittatoriali di vario tipo, viviamo in un tempo di grande crisi della democrazia e di grande difficoltà a governare Paesi retti da sistemi democratici (l’Italia ne è un chiaro esempio). La democrazia non è un valore astratto, ma un modo corresponsabile di vivere insieme, perseguendo il bene comune. La democrazia non è un equilibrio artificiale e precario tra vari interessi corporativi, ma l’impegno di ognuno e di ogni articolazione della società per edificare una casa comune secondo i valori della giustizia e della solidarietà. Senza questi fondamenti riconosciuti e condivisi, la democrazia si trasforma in una specie di Far West, in una guerra tra bande che, con modalità più o meno violente (sebbene legittime sul piano giuridico) si spartiscono la torta disponibile senza interessarsi di chi ne rimane privo e rimanendo indifferenti rispetto ai doveri di giustizia e solidarietà (ne è un esempio la grave piaga dell’evasione fiscale). Paradossalmente ci troviamo nella triste congiuntura per cui, a fronte di persone che combattono per difendere la democrazia, ci sono tante altre persone che vivono in paesi retti da sistemi democratici che ne hanno perso il senso e il valore, perché non si sentono coinvolte e riconosciute nei loro bisogni e nelle loro aspirazioni (vedi per esempio l’altra grave piaga della disoccupazione giovanile e della faglia intergenerazionale), disertando gli appuntamenti elettorali. Se vuole essere apprezzabile, la democrazia deve essere in grado di mostrare non solo la possibilità di vivere godendo di una libertà individuale, ma i suoi valori fondativi e la sua capacità di coinvolgere attivamente e corresponsabilmente tutti i cittadini e le cittadine nel perseguimento del bene comune. La democrazia dovrebbe essere una casa comune in cui le persone sono contente di abitare e, insieme, si impegnano per renderla sempre più bella e accogliente. Se non è così, come purtroppo pare che accada in molti paesi occidentali che si definiscono democratici, se non emerge in modo evidente la differenza rispetto ai sistemi autoritari, allora tutta questa narrazione rischia di diventare una farsa e quello che rimane è la lotta tra vari potentati che, a livello globale, cercano di impadronirsi delle risorse del Pianeta al fine di arricchire pochi privilegiati (i famosi oligarchi presenti ovunque, non solo in Russia) sia nei paesi democratici, che nei paesi retti da governi autoritari. Se non riscopriamo il valore e il gusto della democrazia, saremo deboli e non credibili (moralmente corrotti, come ci definisce il Patriarca Kirill di Mosca) di fronte a chi ci mostra la forza dell’autoritarismo, che non si fa scrupoli ad umiliare e uccidere le persone per perseguire e difendere i propri fini.
Fraternità E’ l’unica vera risposta alla guerra! Lo ha richiamato bene il Papa coniando un neologismo (il “cainismo” insito in noi) e rievocando il conflitto primordiale tra Caino e Abele che ha portato al primo fratricidio. Tutto il libro della Genesi – che narra le origini dell’umanità e di Israele – racconta di una storia che si sviluppa intorno ai successivi conflitti tra fratelli (Caino e Abele; i figli di Noé; Abramo e Lot; Isacco e Ismaele; Giacobbe e Esaù …). Questi conflitti saranno sanati e riconciliati da Giuseppe, figlio di Giacobbe, che, nonostante le ingiustizie subite per l’invidia dei fratelli, spezza la catena della vendetta e diventa fautore di riconciliazione e di pace (Gen 50, 15-21). Anche per noi la fraternità rimane una sfida importante. Finché non ci riconosciamo come fratelli, con tutto ciò che questo termine comporta, non potremo mai costruire la pace. In particolare, noi cristiani abbiamo questa grande responsabilità nel mondo: vivere e testimoniare la parabola della fraternità nella differenza dei sessi, delle culture, delle sensibilità, delle idee politiche, degli stati sociali. Trovo bellissimo il breve testo che san Paolo scrive a Filemone affinché accogliesse Onesimo, suo schiavo, come fratello in Cristo. Formalmente era il suo schiavo, ma poiché ne condivideva la fede e l’appartenenza ecclesiale, Paolo chiede a Filemone di stare di fronte ad Onesimo riconoscendolo come suo fratello. Ci sono voluti secoli perché la piaga della schiavitù fosse abolita (almeno legalmente) anche nei paesi cristiani. La chiave è stata quella data da Paolo molti secoli prima: la fraternità. Non saranno i compromessi economici o i trattati internazionali che ci garantiranno la pace; forse potranno far cessare il rumore delle armi nel momento in cui tutti lo riconosceranno conveniente, ma la pace si costruirà solamente attraverso la fraternità, e noi cristiani ne siamo i primi responsabili. Senza una fraternità testimoniata, il Vangelo rimane un’utopia irrealizzabile e frustrante. Se invece tale fraternità verrà testimoniata custodendo tutte le differenze, che non divengono motivo di conflitto, allora una speranza per il mondo è possibile. Questa è la sfida che si rinnova per noi cristiani in questo tempo: essere costruttori di fraternità e di pace per testimoniare il Vangelo di Gesù.
Ci prepariamo a vivere tempi più difficili, anche se ci risulta difficile crederlo dopo più di due anni di Covid. A noi è data la possibilità di non subirli in modo rassegnato, ma di cogliere questo tempo come un’opportunità per fare emergere il meglio di noi stessi ereditato dalla nostra storia, vivendo in modo creativo, la sobrietà, la democrazia e la fraternità… Se accadesse, sicuramente diventeremmo più umani.
E’ di ieri la notizia della richiesta di archiviazione del procedimento penale per le accuse di molestie subite da alcune giovani donne durante il raduno nazionale degli Alpini che si è svolto a Rimini la seconda domenica di maggio. E’ evidentemente ingiusto generalizzare per tutti i facenti parte di un’associazione un comportamento inaccettabile come la molestia sessuale agito solo da qualcuno: su questo non ci piove! Ma un po’ di amaro in bocca rimane, soprattutto pensando a quelle donne che non potranno avere giustizia per gli abusi subiti e denunciati.
Da quei giorni, però, mi è rimasto un pensiero su cui non ho sentito grandi riflessioni, né commenti, né prese di distanza: riguarda l’ampia tolleranza verso l’abuso di alcol che caratterizza questo tipo di adunata (compresa quella di Rimini), quasi come fosse un segno distintivo degli Alpini. Si raccontava in quei giorni che la birra e il vino scorressero a fiumi e che (titolavano i giornali) le scorte fossero esaurite già dopo alcune ore dall’arrivo delle penne nere in Riviera. Conosco la fama degli alpini, che si fregiano di essere grandi bevitori, così come conosco la fama dei riminesi, che non sono abituati a farsi scrupoli morali di fronte a persone che, indipendentemente dalla ragione che li ha portati a Rimini, sono sempre e comunque dei clienti. Non è mia intenzione fare il moralista.
Da educatore però, mi sento di segnalare che in questi ultimi decenni la cultura e le sensibilità circa il rapporto con l’alcol sono molto cambiate, soprattutto a fronte del grave abuso di bevande alcoliche diffuso tra i giovani e giovanissimi, con le fatali conseguenze registrate dai pronto soccorso delle nostre città (coma etilici, soprusi, molestie e incidenti) in ogni weekend dell’anno. In molte regioni del Nord – patria naturale anche se non esclusiva degli Alpini – le dipendenze da abuso di alcol, da tempo sono considerate una piaga sociale molto grave che mette in crisi persone e famiglie (perdita del lavoro, divisioni coniugali, violenze domestiche …). Anche nei nostri territori sono molti i giovani e gli adulti (uomini e donne) vittime della dipendenza da alcolici, una dipendenza molto dura da sconfiggere perché deve fare i conti con una cultura ancora molto tollerante verso chi beve, anche verso chi beve troppo, ancora considerato una persona capace di divertirsi. Ma c’è poco da ridere e da fare baldoria!
Non so dire se le molestie denunciate durante i giorni dell’adunata (che purtroppo rimarranno impunite) fossero la conseguenza dell’abuso di alcol, ma a me sembra che una realtà benemerita come l’Associazione Nazionale Alpini, che si distingue dovunque per generosità e spirito di solidarietà, mentre ha prontamente preso le distanze da coloro che avevano agito le molestie sessuali, affermando che tali comportamenti sono inammissibili per coloro che si onorano del nome di alpino, potrebbe (dovrebbe?) avviare una riflessione seria anche sul tema dell’abuso dell’alcol, che non solo viene tollerato, ma addirittura incentivato nei vari raduni.
Come ho già detto la cultura su questo tema è molto cambiata e da più parti certi comportamenti non sono più considerati goliardici, ma gravemente patologici. Non sarebbe male se gli Alpini, anche su questo aspetto, si impegnassero a dare un buon esempio, con un giudizio diverso e l’invito a comportamenti diversi riguardo l’abuso delle bevande alcoliche. Mi piace ricordare che solo cambiando rimaniamo fedeli a ciò che siamo: questo vale per tutti e anche per gli Alpini.
Sabino Chialà, monaco di Bose e nuovo priore della comunità, la settimana scorsa (27 giugno – 1 luglio 2022) ha guidato un corso di esercizi spirituali rivolti ai vescovi e ad alcuni presbiteri della nostra regione. Tra le sue riflessioni molto ricche, mi porto a casa quella sugli esercizi di speranza. La speranza non è ottimismo o pensiero positivo; non è la propensione a vedere il bicchiere mezzo pieno. La speranza è una scelta: la scelta di vivere nel mondo lasciandosi guidare da una promessa di bene che viene da Dio. Non appartenendo al carattere o alla sensibilità della persona, la speranza va allenata con degli esercizi che ci consentono di alimentarla senza lasciare che si affievolisca o venga travolta dalle vicende della storia con le quali è necessario confrontarsi per rimanere radicati.
1. Il primo esercizio di speranza riguarda la memoria. Se la speranza è la capacità di vivere il presente protesi verso il futuro, questo non è possibile senza un forte radicamento nel passato; un passato custodito senza nostalgia, ma come “luogo della memoria” di un’esperienza di bene e di una promessa che sostiene il mio cammino. Senza questa memoria dell’esperienza di bene, la speranza diventa un’illusione, una chimera. Io posso sperare perché ho fatto esperienza della bontà e della fedeltà di Dio, perché faccio parte di un popolo che ha condiviso questa esperienza di bene. Se questo bene è scritto nel mio passato, posso sperare ragionevolmente che sia previsto anche nel mio futuro: perché Dio è fedele. La mia esperienza di credente, come quella di tanti uomini e donne credenti che mi hanno preceduto, è sostenuta anche da una promessa: il compimento del Regno di Dio. Anche questa la memoria di questa promessa sostiene la mia speranza: perché il Signore è fedele.
2. Il secondo esercizio di speranza coinvolge l’audacia. Non si alimenta la speranza se si rimane immobili nel “si è sempre fatto così“. L’audacia non è imprudenza, ma disponibilità a compiere dei passi (anche in direzioni nuove) per dare concretezza al Vangelo. Audacia è accogliere un figlio, condividere i propri beni con chi è nel bisogno, aprire la propria casa a chi chiede accoglienza, perdonare chi ci ha fatto del male, testimoniare la propria scelta di fede, rinnovare la prassi pastorale, creare occasioni di incontro con chi è più lontano … Niente che non ci venga già chiesto dal Vangelo, ma che, stranamente, noi abbiamo imparato a ritenere straordinario.
3. Il terzo esercizio di speranza richiede perseveranza. Chi vive nella speranza non ha la pretesa che le situazioni cambino immediatamente, ma sa permanere nell’impegno in attesa dei frutti che verranno a tempo opportuno. La perseveranza è la capacità di dare valore ai piccoli e lenti (piccolissimi e lentissimi) passi che segnano il progresso di un processo, vincendo l’impazienza dei risultati immediati.
Per alimentare la speranza occorre radicarsi nel passato esercitando la memoria grata, abitare il presente con audacia, proiettarsi nel futuro attraverso una perseveranza umile e fedele.
Bello vivere in un Paese in cui ognuno può esprimere le proprie idee. Lo dico convintamente! E’ bello anche quando vengono espresse idee dissonanti dal sentire comune o della maggioranza. E’ accaduto la settimana scorsa, per un intervento televisivo del prof. Galimberti, che ha attaccato (secondo alcuni giornali addirittura “massacrato”) papa Francesco per la scelta tanto discussa di far portare la croce nella Via Crucis del Colosseo a due donne, una ucraina e l’altra russa. A fronte delle dure reazioni della Chiesa ucraina, che ha scelto di non mandare in onda la Via Crucis ritenuta offensiva per il popolo ucraino, Galimberti, con un linguaggio molto netto, ha denunciato l’insensibilità del Papa (e degli organizzatori della Via Crucis), incapace/i di sentire il dolore degli Ucraini di fronte alla violenza di cui sono vittime da parte dei Russi. Facendo sconto ad opportune e forse doverose distinzioni, Galimberti espone un ragionamento sensato sui tempi necessari per l’elaborazione di un trauma, arrivando a proporre esempi surreali (evocare i nazisti in questo momento storico è divenuto ricorrente), ma evocativi, per spiegare come tale gesto fosse assolutamente prematuro e, quindi, fuori luogo. Questa la sua tesi. Complice la Pasqua, la polemica non si è diffusa più di tanto, ma merita di essere presa in considerazione non solo per l’importanza dell’interlocutore, ma anche per cogliere l’occasione per ampliare la riflessione.
Ciò che molti fanno fatica a comprendere in alcune posizioni della Chiesa, compresa questa che è stata oggetto di tensione, è che, in molti casi, le parole dette o i gesti compiuti possono essere letti secondo una prospettiva profetica, quella che ci consente di vedere le cose non dal punto di vista puramente umano, ma da quello di Dio. Il compito della profezia, che la Chiesa sente la responsabilità di vivere nel mondo, è quello di portare uno sguardo divergente rispetto al giudizio comune, uno sguardo che, anche senza voler offendere nessuno, può urtare qualcuno, mentre invita a guardare la realtà secondo la prospettiva del Vangelo, lo stesso che chiede ai discepoli di Gesù di pregare per i propri nemici, di porgere l’altra guancia quando si viene percossi sul volto, di lasciare il mantello a chi vuole sottrarci la tunica (Cfr. Mt 5). La logica del Vangelo non segue la logica dell’opportunità, della compiacenza o della convenienza! E’ e rimane sempre una pietra d’inciampo, una lama a doppio taglio che incide profondamente e non ci lascia tranquilli. “Pensate che io sia venuto a portare pace sulla terra? No, io vi dico, ma divisione.” (Lc 12,51).
Questo effetto stridente non è ricercato per forza; non sempre è necessario andare contro pelo e soprattutto, come afferma san Pietro nella sua prima lettera, scritta a comunità dell’Asia minore che subivano la persecuzione, occorre sempre avere rispetto, dolcezza e con retta coscienza (Cfr. 1Pt 3,16). Il rispetto però non ci esime di proclamare la verità del Vangelo sia quando sembra opportuna che quando pare inopportuna – come afferma san Paolo – (Cfr. 2Tim 4,2).
La scelta compiuta dal Papa (o da chi con lui e per lui) nella Via Crucis del Venerdì Santo, non può essere letta secondo una logica politica, ma semplicemente secondo la logica del Vangelo e tantissimi lo hanno compreso, riconoscendo in quelle immagini accompagnate da un silenzio profondo, la traduzione plastica della parola di Gesù, una parola che è difficile vivere, ma non per questo non deve essere annunciata e proclamata se, come cristiani, crediamo sia una parola di salvezza.
Il cristianesimo non è “l’oppio dei popoli” che annebbia le persone rispetto alle domande importanti che la storia pone all’uomo di ogni tempo. Il Vangelo non è una parola consolante che anestetizza il dolore del vivere. La parola di Gesù è un continuo e costante invito alla conversione, perché chiunque intraprenda il cammino della fede riconosce ogni giorno la distanza che lo separa dal vivere con semplicità ed immediatezza la Parola di Dio, quella Parola capace di liberare e trasformare la vita, come è accaduto a molti santi e sante nella nostra storia. Ci sono dei momenti della vita (e della storia) in cui vivere la parola del Vangelo è lancinante, soprattutto quando chiede di perdonare chi mi ha fatto del male, perché questa richiesta sembra essere davvero contro natura e contro la logica che invocherebbe tutt’altro tipo di giustizia. Solo la fede (= fiducia) mi consente di scegliere di seguire Gesù anche su quella strada così difficile. Solo riconoscendo il suo amore per me posso accettare di vivere quello che a me (e a molti) potrebbe sembrare illogico e addirittura ingiusto. Solo nella consapevolezza che Gesù mi rivela il volto più umano dell’uomo io posso scegliere di voler essere pienamente umano e di vivere la sua Parola anche quando mi chiede di “rinnegare me stesso” (altra parole di Gesù – Cfr. Mt 16,24).
E’ facile che chi non condivide la prospettiva della fede faccia fatica a comprendere il valore di alcune parole e alcune azioni che vengono dette e compiute secondo una prospettiva profetica: da qui la facilità di incomprensione e di giudizio che possono nascere. Certe tensioni ci aiutano a riconoscere che la parola del Vangelo è sempre una parola diversa, una parola che interpella alla sequela, che chiede di fidarsi, che chiede di convertirsi e che non da tutti può essere accolta, perché, pur avendo una destinazione universale, per essere compresa ha bisogno di un percorso nella fede. “Chi ha orecchi per ascoltare, ascolti!” (Lc 8,8)
La prima parola che Gesù risorto rivolge ai suoi discepoli è: “Pace a voi” (Gv 20,19) e ci sembra una parola di cui davvero abbiamo bisogno in questo tempo. La pace, infatti, è uno dei frutti più preziosi della Pasqua di Gesù, della sua vittoria sulla morte, della sua risurrezione.
Ma ascoltando bene il Vangelo, ci accorgiamo che sul modo di intendere la pace, noi e Gesù abbiamo idee un po’ diverse: “Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi. Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore.” (Gv 14,27). Gesù ci tiene a marcare questa differenza: se per il mondo la pace coincide con l’assenza di conflitto, o più in generale con condizioni esterne che ci permettano di vivere abbastanza serenamente, per Gesù la pace risiede in una totale confidenza in Dio, è l’assenza di turbamento e di timore, è la consapevolezza di essere amati e custoditi in ogni circostanza dall’amore di Dio Padre.
C’è un salmo molto bello (il Salmo 131) che ci aiuta a comprendere come Gesù intenda la pace:
Signore, non si esalta il mio cuore né i miei occhi guardano in alto; non vado cercando cose grandi né meraviglie più alte di me. 2 Io invece resto quieto e sereno: come un bimbo svezzato in braccio a sua madre, come un bimbo svezzato è in me l’anima mia. 3 Israele attenda il Signore, da ora e per sempre.
L’immagine di questo bambino totalmente abbandonato nell’abbraccio della madre è quella che più si avvicina alla pace che Gesù ci viene a portare con la Pasqua.
Questa parola di Gesù non rappresenta un invito al disimpegno rispetto alla necessità urgente di creare le condizioni affinché le armi possano tacere e si possa creare un clima più favorevole al dialogo e al confronto. Tutt’altro! Gesù ci aiuta a non cadere nell’illusione che la vera pace possa realizzarsi solo attraverso dei compromessi.
Fino a quando ogni uomo non riposerà grato nell’abbraccio di Dio Padre, non riconoscerà tutto il bene che viene da Lui e accetterà di spegnere nel suo cuore ogni cupidigia da cui spera di ottenere la felicità, cupidigia che – come ci ha ricordato anche recentemente il Papa – è la causa di ogni guerra, noi non sperimenteremo la pace che Gesù è venuto a portarci.
Il “miracolo della Pasqua” è che questa pace si realizza in chiunque accoglie l’annuncio della risurrezione come sorgente di pace, come un fiore che sboccia in un campo. Se Dio ha vinto la morte, possiamo stare davvero tranquilli e in pace!
Solo donne e uomini pacificati, che non hanno timore della morte perché possono confidare nell’abbraccio di Dio, possono essere donne e uomini capaci di portare la pace anche agli altri.
È questo l’annuncio del Vangelo che i discepoli di Gesù sono stati chiamati a portare nel mondo: non un’idea; non una filosofia, tantomeno un’etica; ma un messaggio e una testimonianza di pace capace di cambiare la vita delle persone.
Eccolo che deflagra, insinuoso e letale, ammorba la comunità cristiana dove tutti dovrebbero chiamarsi fratelli e sorelle e traccia delle linee di confine, pone un discrimine ideologicamente insormontabile: è il nazionalismo, una bestia dalle molte teste che non riesce ad essere sconfitta. Era accaduto a Gerusalemme, nella primissima comunità cristiana, quando i greci sono insorti contro gli ebrei denunciando una discriminazione nei confronti delle “loro vedove” (Cfr. At 6), ma il senso della fraternità prevalse e, insieme, hanno trovato una “super soluzione” che ha rappresentato non un compromesso, ma un vantaggio per tutti. E’ accaduto in Bosnia-Erzegovina, durante la guerra dei Balcani, quando anche i preti e i frati cattolici affermavano: “prima sono croato, poi sono prete” e prendevano le armi per andare a combattere contro “i nemici”, quelli che fino a qualche mese prima erano i loro vicini di casa. E’ accaduto in Ruanda, una delle nazioni più cattoliche dell’Africa, dove il tribalismo ha prevalso sulla fraternità, scatenando un genocidio tra i più cruenti che la storia recente ricordi, realizzato a colpi di machete.
Ora accade anche con la guerra in Ucraina! E’ accaduto alla Chiesa sorella ortodossa, dove quattrocento preti hanno denunciato il Patriarca Kirill come eretico, perché l’ideologia legata al “Mondo Russo” sembra prevalere sul suo impegno di annuncio del Vangelo e di difesa della comunione ecclesiale giustificando l’aggressione dell’esercito russo all’Ucraina. E’ accaduto ieri alla Chiesa cattolica, con una dura presa di distanza della Chiesa Ucraina, sia quella di rito romano che quella di rito bizantino, per la scelta di far portare la croce nella Via Crucis del Venerdì Santo al Colosseo ad una coppia di donne, una ucraina e l’altra russa, amiche e colleghe, per testimoniare il desiderio di pace e di riconciliazione (messaggio centrale della Pasqua). Questa mattina i giornali affermano che in Ucraina non è stata trasmessa la Via Crucis come segno di protesta, con il sostegno dei vescovi.
Ancora una volta il nazionalismo sembra prevalere sulla comunione e sulla fraternità tra cristiani. Accade ai fratelli ortodossi della Chiesa russa e accade anche a noi cattolici, perché il nemico di Dio, il divisore (il diavolo), non fa caso alla confessione cristiana, ma ci colpisce e ci ammorba allo stesso modo, mostrandoci la nostra debolezza scandalosa.
Ma se qualcuno tra noi pensasse che si tratta di un problema della Chiesa dell’Est Europa, provi a riascoltare la testimonianza proposta ieri nell’ultima stazione della Via Crucis del Colosseo, dove una famiglia di cattolici provenienti dall’Africa ha condiviso (e denunciato) la fatica a farsi riconoscere come tali, essendo considerati solamente come immigrati, categoria generica che definisce “i non italiani”: anche questo è nazionalismo ed è autenticamente nostrano.
Preghiamo perché la Pasqua ci aiuti a riconoscere e sconfiggere questo nemico infido che striscia tra di noi e ci contagia con il virus della divisione. Questo, direbbe Gesù, è un genere di demonio che si sconfigge con il digiuno, la preghiera e l’impegno per la fraternità. Se qualcuno si sentisse a posto, sbaglia grandemente!
Riflessioni divergenti (e forse utopiche) rispetto al pensiero dell’ineluttabilità della guerra
In questi giorni, seguendo l’evolversi quotidiano della vicenda della guerra in Ucraina, sono molto colpito dall’inefficacia di ogni incontro a livello internazionale, almeno di quelli di cui la stampa rende conto. In qualche momento sembra si possano aprire degli spiragli per un confronto che vada verso la fine del conflitto, ma poi risultano solo mosse strategiche per ottenere vantaggi sul campo. Man mano che i giorni passano, come afferma il Papa, sembra che la logica del conflitto diventi ineluttabile, che l’unica via per “costringere” il presidente Putin al dialogo sia caratterizzata da più sanzioni economiche alla Russia e più armi all’Ucraina. Questo, d’altra parte, chiedono gli Ucraini per bocca del loro Presidente: “armi, armi, armi“, parole che, pur non mettendo in discussione il diritto all’autodifesa del popolo ucraino, non ci possono lasciare indifferenti. Ovviamente ci sono molte cose che non vengono portate alla conoscenza del pubblico: è logico ed è giusto; ma l’impressione è quella di essere entrati in un loop da cui sarà molto difficile uscire.
I vari capi di governo dell’Unione Europea, ancora una volta, anche in una situazione di emergenza come questa, non riescono a trovare una via comune, individuare un percorso condiviso: ognuno prova a difendere i propri interessi nazionali per uscire più indenne possibile dalla crisi, anche a scapito di altri. Ancora una volta l’Unione sembra fallire il suo ideale e la possibilità di diventare interlocutore credibile in una situazione di crisi mondiale.
Le voci dei pacifisti e dei movimenti nonviolenti, vengono tacitate come ingenue e irrealistiche. Gli obiettori di coscienza in Ucraina vengono denunciati come traditori della Patria, così come in Russia i dissidenti vengono arrestati.
Un’altra cosa che mi colpisce molto, in questo gli USA stanno davvero alzando i toni, è la delegittimazione personale del presidente Putin, atteggiamento irragionevole sia sul piano strategico che su quello politico se si desidera aprire tavoli di dialogo. La tradizione cristiana, pur non negando la gravità delle responsabilità personali e la necessità di una giusta sanzione, distingue sempre tra “peccato e peccatore”: mi sembrerebbe una modalità intelligente per affrontare questa situazione.
Viene da chiedersi se ci sia davvero qualcuno che desidera aprire una via di dialogo per raggiungere una soluzione di questo conflitto o se si attenda la capitolazione del nemico, secondo la logica perseguita nella Seconda Guerra Mondiale (dopo i bombardamenti a tappeto sulle città tedesche e l’atomica sulle due città del Giappone).
Credo che, per aprire questa via, ci siano tre scelte importanti che gli stati europei debbano compiere in modo urgente per avviare un processo di pace: – Avere il coraggio di dire ai propri cittadini che la guerra in Ucraina (e quindi in Europa) coinvolge anche noi, non solamente nelle conseguenze passive del conflitto (aumento dei prezzi delle materie prime e dell’energia), ma anche per scelte politiche attive che vadano nella direzione di sottrarre le risorse che alimentano la guerra. La pace ha un prezzo che occorre essere disponibili a pagare se la si desidera, così come si è scelto di pagare per tutte le misure di contrasto al Covid. Non si può chiedere la pace pensando che il prezzo lo debbano pagare altri. Tale situazione dovrebbe portare, come è accaduto in parte nella situazione del Covid, a vivere una solidarietà totale tra le nazioni dell’Unione e – all’interno dei singoli stati – tra i cittadini, per testimoniare una risposta efficace alla logica della guerra e “fare desiderare” a tutti di far parte di una Unione di stati che ripudia la guerra e risponde ad essa con la logica della fraternità e della solidarietà. Questa posizione darebbe credibilità alle affermazioni dei capi di governo e dei rappresentanti dell’Unione e ci libererebbe dal ricatto di chi è convinto (a ragione per adesso) che le nostre economie nazionali debbano essere difese anche a costo di migliaia di morti, e che, oltre le affermazioni di principio, non ci sia la reale disponibilità di compiere scelte concrete. – Di fronte a chi rappresenta regimi totalitari occorre testimoniare coerentemente e concretamente cosa significhi fare parte di sistemi democratici che difendono la dignità delle singole persone e la giustizia. Come ricorda sempre il Papa, la guerra è generata dall’ingiustizia e alimentata dalla reazione delle vittime dell’ingiustizia. Come hanno osservato molti analisti, l’aggressione del presidente Putin all’Ucraina, sostenuto discretamente dalla Cina e da altri paesi con regimi totalitari, è in ultima analisi l’aggressione ad un sistema liberaldemocratico ritenuto pericoloso, degradato e sostanzialmente ingiusto. Non si può non considerare questo giudizio, espresso anche dal patriarca Kirill, che vorrebbe legittimare questo conflitto come una guerra contro l’abiezione dell’Occidente. Lasciando perdere il dibattito ideologico che supporta tali posizioni, mi chiedo quale testimonianza di democrazia riusciamo a dare nelle nostre nazioni a fronte di problematiche endemiche alle quali non c’è volontà di dare risposta (se penso all’Italia penso ancora all’evasione fiscale, al lavoro nero, alla corruzione, alla malasanità, allo scarso investimento nell’istruzione, alla reale parità di diritti tra uomini e donne, tutti fenomeni sui cui prospera la malavita e le varie organizzazioni mafiose …). Quei valori che affermiamo di difendere (libertà, uguaglianza nei diritti e nei doveri, rispetto della dignità di ogni persona, partecipazione) trovano una concretizzazione nei nostri stati democratici? Come testimoniamo la giustizia, e i valori connessi, che le nostre costituzioni proclamano? Come ci impegniamo per combattere l’ingiustizia, la corruzione, l’illegalità, l’ineguaglianza pratica? Anche questa provocazione, sul fronte interno, significherebbe impegnarsi per scelte che rafforzano la nostra credibilità nel desiderio di pace. – La terza scelta si prospetta più a lungo termine e dovrebbe riguardare un cambio radicale dei paesi europei rispetto alla politica neocoloniale verso i paesi fornitori di materie prime, soprattutto quelli dell’Africa. Finché i nostri sistemi economici saranno basati sullo sfruttamento dei paesi produttori e sul finanziamento delle guerre in loco per conservare i diritti di sfruttamento delle risorse a solo vantaggio delle compagnie europee, americane, russe, e cinesi, sarà molto difficile sedere ad un tavolo per fare la morale a qualcun altro perché ha scelto la via della guerra per ottenere ciò che ritiene necessario per il proprio Paese o un diritto. Certamente usa metodi molto più violenti ed è molto più spregiudicato di noi nell’ottenere quello che vuole, risultando inaccettabile e ingiustificabile sia nel merito che nel metodo, ma la sostanza non cambia molto.
Qualcuno potrebbe pensare che tali questioni, di fronte alle notizie che ogni giorno ci arrivano dal terreno di guerra, non siano affatto attuali e neppure prioritarie. Ma poiché abbiamo imparato che tutto è connesso, questa terribile crisi, insieme a tutte le altre di cui difficilmente riusciamo a prendere seriamente coscienza riguardo all’urgenza (crisi climatica, migratoria, demografica, economica, …), ci dovrebbe spingere a compiere dei cambiamenti importanti e a rinunciare alla logica che mira solamente a difendere un sistema che è gravemente ammalato (“pensavamo di essere sani in un mondo ammalato“, Francesco, piazza san Pietro, 27 marzo 2020). La terza guerra mondiale che, seppure in modo frammentato, si combatte da anni in varie regioni del pianeta, ora è venuta a bussare alle nostre porte e giustamente siamo spaventati e desiderosi di pace. Questa pace ci sarà solamente quando la penseremo per tutti, quando di fronte a qualcuno che decide di combattere si alzeranno altri che, poiché credibili e non ricattabili, potranno dire con autorevolezza che non è quella la via per affrontare le questioni che sono alla base del conflitto o per giudicare immorali e ingiuste le azioni che nascono dalla scelta di combattere.
Se si cerca con sincerità la via del dialogo, occorre spiazzare l’avversario, non con una manifestazione di forza superiore, ma con la testimonianza di una giustizia desiderabile da chiunque afferma di desiderare la pace.
Nel frattempo è molto significativo che i popoli dei paesi europei si aprano all’accoglienza dei profughi di questa guerra; ma dovrebbero sentire un grande imbarazzo e confessare al propria vergogna perché spesso nel passato (e ancora oggi) hanno chiuso le porte in faccia a chi fuggiva da altre guerre: questa vergogna e questo imbarazzo farebbero molto bene per recuperare i valori democratici che vengono proclamati dalle nostre costituzioni. Ogni gesto di accoglienza, di solidarietà, di giustizia, di conversione al bene rappresenta un passo verso la pace; combattendo su questo fronte, essendo disponibili a pagare di persona tanto quanto i soldati che combattono con le armi, noi potremo favorire quel processo di pace che stenta a crescere negli incontri diplomatici dei capi di governo.
Una pace che nasce dal basso e che viene alimentata da scelte coerenti alla nostra Costituzione.