Il dogma di Babbo Natale

Chi pensa di vivere in una cultura che “finalmente” si è liberata da tutti i dogmi si sbaglia! Ce ne sono alcuni inattaccabili e inossidabili. Nei loro confronti non c’è secolarismo, né scienza che tenga!
Ovviamente non si tratta dei dogmi relativi alla Trinità o alla natura umana/divina di Cristo, temi che hanno occupato per secoli le menti più brillanti della cristianità, e neppure di quelli più cari al popolo cristiano, riguardanti i doni attribuiti dal Padre alla Madre di Dio. Qui si tratta addirittura di Babbo Natale!

Come novello eretico, qualche giorno fa un vescovo ha osato mettere in dubbio la sua esistenza, creando grave scandalo tra i bambini (si dice) e sdegno tra i genitori. Come si permette il vescovo Antonio di disilludere i nostri bambini dicendo loro simili corbellerie? Con quale coscienza questo vescovo cerca di minare la loro solida “fede” in una delle ultime verità degne di questo nome, insegnate e sostenute con grande impegno educativo sia dai genitori che dai maestri, senza timore che qualcuno li accusi di confessionalismo?
Al rogo! Al rogo! (mediatico ovviamente).

La notizia infatti ha trovato grande eco sui giornali, con reazioni scandalizzate di tanti opinion makers che hanno stigmatizzato come improvvido e inopportuno, addirittura offensivo, l’intervento del vescovo Antonio.
A fronte di tutto questo clamore mediatico, lo stesso vescovo, dalle pagine di Avvenire, oggi scrive una bellissima lettera a Gesù Bambino che consiglio di leggere (lettera nella quale – tra l’altro – riporta correttamente quanto avrebbe detto nella situazione incriminata).

Al di là della cronaca e del gossip, per tutti noi educatori cristiani (genitori, insegnanti ed educatori a vario titolo) si pone un problema serio, antico e sempre nuovo, un problema che richiede un accurato discernimento comunitario: mentre nel nostro stare “nel mondo” siamo chiamati a riconoscere e valorizzare tutto quanto di buono, di bello e di giusto il contesto ci offre, perché lo riconosciamo come una via che può condurre a Dio (il solo che è buono e giusto), dobbiamo forse tacere rispetto a ciò che crediamo non essere vero e giusto, in nome del politically correct, oppure possiamo responsabilmente e in modo nonviolento presentare le nostre posizioni, anche accettando che queste non vengano accolte? Fino a che punto vale l’opportunità di tacere o abbozzare, e fino a che punto siamo responsabili della verità e della giustizia?
Non si tratta di intraprendere nuove crociate (per carità!) e neppure di istruire nuovi processi di inquisizione, ma semplicemente di affermare con franchezza, per esempio, che per noi vivere il Natale significa celebrare l’incarnazione di Cristo; che vivere il Capodanno significa iniziare un tempo nuovo a partire dalla presenza di Dio accanto a noi; che vivere la Pasqua significa credere nella potenza della risurrezione e celebrare la vittoria della vita sulla morte… e che questo noi desideriamo insegnare ai nostri bambini, che pure vivono in un mondo in cui il personaggio principale del Natale è Babbo Natale, il Capodanno è la festa dello spumante e la Pasqua quella di primavera.

Non sempre sarà necessario porsi in contrapposizione frontale.
In una cultura che ha scelto la via della laicità, a me sembra corretto che i bambini e gli adulti sappiano quale sia il fondamento storico e religioso di alcune feste e ricorrenze, pur riconoscendo che oggi ci sono modi diversi di viverle.
Se così fosse, nessuno si scandalizzerebbe che un vescovo, successore degli apostoli di Gesù, proponga a dei bambini ciò che lui professa come vero e significativo per “crescere in sapienza”, o metta in guardia rispetto a modalità più effimere ed esclusive (come afferma bene nella sua lettera) di vivere una bella festa come il Natale.

La sfida del dialogo, che parte dall’ascolto, è una sfida sempre presente per la Chiesa che, proprio in questi mesi, ha scelto di porsi in ascolto e in cammino con tutti gli uomini, per riconoscere la strada su cui è chiamata a camminare per seguire il Signore e annunciare il Vangelo.
La sfida del dialogo riguarda anche coloro che non si riconoscono nella proposta ecclesiale, coloro che desiderano sinceramente essere tolleranti e accoglienti, ma che rischiano – come tutti – di arroccarsi in nuovi ed inutili dogmatismi.
Il dialogo, per la Chiesa, non rappresenta la rinuncia all’annuncio del Vangelo; ma diviene la via per un nuovo stile di annuncio, che valorizza l’incontro con l’altro e la condivisione della vita prima dell’asserzione e dell’insegnamento.
Si tratta di una via difficile, ma molto feconda.
Difficile perché sembra essere lenta a chi deve contabilizzare dei risultati.
Feconda perché, attraverso la relazione interpersonale, il Vangelo non si impone, ma permea ogni parola e ogni gesto diventando una testimonianza che aiuta il credente a crescere nella fedeltà alla sua fede. “La fede cresce condividendola”.

Percorriamo questa via con franchezza, umiltà e libertà per rendere il nostro servizio al mondo.

Tutti siamo peccatori

Questa è un’affermazione che non crea nessuno scandalo, nessun turbamento; anzi, paradossalmente, ha quasi un effetto rassicurante. Essa viene letta nella prospettiva del “mal comune mezzo gaudio“; nonostante il suo contenuto deflagrante e oggettivamente problematico, noi non la prendiamo sul serio.
Questa frase l’ha pronunciata il Papa durante una conferenza stampa in aereo, di ritorno dal recente viaggio in Grecia, rispondendo alla domanda di una giornalista francese che domandava luci riguardo le dimissioni del vescovo di Parigi. Queste le parole del Papa riportate dal sito ufficiale della Santa Sede.

Così, Aupetit è peccatore come lo sono io. Non so se Lei si sente così, ma forse… come è stato Pietro, il vescovo sul quale Cristo ha fondato la Chiesa. Come mai la comunità di quel tempo aveva accettato un vescovo peccatore? (…) era una Chiesa normale, era abituata a sentirsi peccatrice sempre, tutti: era una Chiesa umile. Si vede che la nostra Chiesa non è abituata ad avere un vescovo peccatore, e facciamo finta di dire “è un santo, il mio vescovo”. No, questo è Cappuccetto Rosso. Tutti siamo peccatori. (…) Un uomo al quale hanno tolto la fama così, pubblicamente, non può governare. E questa è un’ingiustizia. Per questo, io ho accettato le dimissioni di Aupetit non sull’altare della verità, ma sull’altare dell’ipocrisia.

Queste parole del Papa mi hanno molto colpito perché aprono ad una prospettiva che non sempre siamo abituati a considerare.
Papa Francesco ci parla della prima Chiesa di Roma come di una Chiesa che aveva accolto un vescovo peccatore perché era una “Chiesa normale, abituata a sentirsi peccatrice sempre, tutti: era una Chiesa umile“.
Una Chiesa “normale” è una comunità di persone che considerano il peccato come parte della loro natura; è una comunità di uomini e donne che, in virtù di questa consapevolezza, è umile e capace anche di accogliere un vescovo peccatore senza giudicarlo.

Rispetto al peccato, invece, noi rischiamo di avere un atteggiamento ambiguo e insano: o siamo rassegnati, lo tolleriamo e, per giustificarci, lo facciamo diventare un non-problema; oppure non lo consideriamo affatto come facente parte della nostra natura e, illusoriamente, ci confrontiamo con modelli idealizzati che tendono ad escludere il peccato considerandolo, eventualmente, come un “incidente di percorso” e un tradimento dell’ideale: ma “questo è Cappuccetto Rosso“, dice il Papa.
Questa realtà non esiste, è una mistificazione!

Il peccato, invece, è una cosa seria che rattrista l’uomo, umilia la sua umanità, frustra il suo desiderio di felicità autentica: per questo non può essere tollerato (il peccato, non il peccatore).
L’uomo, per parte sua, nonostante le sue enormi potenzialità, è una creatura fragile, esposta al peccato. Nonostante le sue buone intenzioni, l’uomo è chiamato a riconoscere la sua naturale propensione al peccato: per affermare sé stesso, il suo valore, la sua libertà, il suo desiderio di sua autonomia ed indipendenza, l’uomo tende ad opporsi a Dio, non riconoscendo nella proposta che Dio gli rivolge la via bella e buona per realizzare tutti i suoi desideri.
Noi siamo tutti come il figlio minore della parabola del Padre misericordioso (Lc 15,11-32), desiderosi di cercare la nostra felicità e la realizzazione di noi stessi lontano dalla casa del Padre. Ma poi, per grazia di Dio, scopriamo che lontano da quella casa c’è solo miseria, degrado e morte; allora intraprendiamo la via del ritorno (conversione) e riscopriamo la bellezza di dimorare nell’abbraccio del Padre e ricevere il suo perdono.
La santità della Chiesa deriva solo dall’esperienza della misericordia di Dio e del suo perdono. Noi siamo “un esercito di perdonati“, ha ripetuto più volte il Papa.
La radice della santità della Chiesa risiede proprio nell’esperienza del perdono ricevuto per benevolenza di Dio; un’esperienza che, quando è vissuta in modo profondo, genera un vita santa, fatta di riconoscenza verso il Padre, di comunione con i fratelli e le sorelle, di accoglienza e misericordia verso tutti; un’esperienza da cui nasce il desiderio di condividere con tutti la gioia derivante dalla possibilità di essere riscattati dal peccato e di vivere una vita santa.

Mi scandalizza che moltissimi pensino che la Chiesa sia una comunità di persone giudicanti, intolleranti e discriminanti, come il figlio maggiore della famosa parabola citata (evidentemente comunichiamo questa impressione!).
Mi preoccupa che non emerga questa dimensione “normale” della Chiesa che, consapevole del suo essere peccatrice (perché formata da uomini e donne che sono tutti peccatori), si propone con umiltà al mondo, pronta ad indicare e condividere la via del riscatto e del perdono.
Solo se cresce la consapevolezza di questa verità potremo liberarci dall’ipocrisia che regola i rapporti interni alla comunità ecclesiale e dall’arroganza con cui ci presentiamo agli occhi del mondo.
Allora la parola del Vangelo, che è l’annuncio della misericordia di Dio, risuonerà autentico e credibile sulle nostre labbra, perché sarà confermato dalla nostra testimonianza di vita umile e accogliente, come è la vita di uomini e donne che sono stati perdonati dal loro peccato.

Siamo solo sabbia

Tutti conosciamo la parabola della casa costruita sulla sabbia e di quella costruita sulla roccia (Mt 7,21.24-29). Io l’ho letta e commentata moltissime volte, soprattutto nella celebrazione dei matrimoni. Mentre sappiamo che la roccia rappresenta la parola di Dio accolta e praticata, io non mi ero mai chiesto cosa rappresentasse la sabbia e perché Gesù avesse scelto quella immagine? La forza della roccia, con il suo retroterra simbolico ampiamente supportato dalla Scrittura, mi attraeva e mi abbagliava. La sabbia non meritava alcuna considerazione vista la sua inconsistenza, ed è rimasta lì per molti anni sulla pagina del Vangelo, senza che le concedessi la possibilità di parlarmi.

Oggi ho cercato di spiegare cosa significhi che la Parola di Dio è una roccia e quale sia questa parola. Avevo davanti due sposi molto belli, pronti a mettere la loro vita l’una/o nella mani dell’altro/a, e la Parola che mi è venuta da consegnare loro come roccia è stata quella del vangelo di Giovanni: “non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi” (Gv 15,16).
E’ la scelta compiuta su di noi dal Signore che può rappresentare il fondamento per la nostra casa, perché, come ripetono incessantemente i Salmi, “lui solo è fedele e il suo amore è per sempre“. La sua scelta su di noi è una roccia, non le nostre scelte che sono tutte passibili di infedeltà, di incoerenza e di tradimento (chi non ne ha fatto esperienza nella sua vita?).
Ed è stato qui che ho compreso, proprio mentre ne parlavo, che la sabbia della parabola siamo noi! Siamo noi con la nostra presunzione che sia sufficiente l’adesione intellettuale o morale ai valori; siamo noi con la nostra convinzione di poterci fidare della nostra affidabilità, del nostro desiderio di coerenza e di fedeltà, della nostra giustizia.
Avevo dimenticato il valore di una delle parole che Dio consegna ad Adamo dopo il peccato: “polvere sei e polvere ritornerai” (Gen 3,19).
Questa è la nostra realtà; noi siamo così! E’ importante esserne consapevoli (non solo il mercoledì delle ceneri quando riceviamo quel segno accompagnato da queste parole). D’altra parte questa realtà che ci appartiene non rappresenta per noi una condanna, perché possiamo contare sulla scelta che il Signore ha fatto su di noi, sul fatto che lui sia lo nostra roccia, che ci ami e ci salvi dalla nostra inconsistenza. Grazie a lui possiamo costruire una casa che non teme le intemperie della vita, quelle che spazzerebbero via tutto quanto noi volessimo costruire solo sulla sabbia che noi siamo. Che bello!

Il testo della casa costruita sulla roccia, chiude la parte del vangelo di Matteo chiamata “il discorso della montagna”, una sezione che si apre con la proclamazione delle Beatitudini, la prima della quale, come tutti ricordano bene, è “beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli” (Mt 5,3).
Potremmo tradurla anche così: beati coloro che sono consapevoli di essere solo polvere e sabbia, che non si illudono di poter costruire la loro casa sulla loro presunzione di coerenza o illudendosi di rimanere fedeli ai grandi valori a cui hanno aderito, ma, con il cuore dei poveri in spirito, sanno riconoscere la benevolenza di Dio che per amore li ha scelti e che rimane fedele, “perché il suo amore è per sempre” (Cfr. Sal 136). Costoro sono beati perché non dovranno temere le tempeste della vita, perché non dovranno temere di veder distrutta la loro casa: essa è fondata sulla roccia della Parola di Dio, quella che ci permette di conoscere che siamo amati.

La mia debolezza trasforma in povertà,
col dono del tuo amore, lo spirito di gioia. Signore, pietà
“.
(M. Frisina, Canto penitenziale)

Mentre

I “mentre” di ogni giorno:
la vita che accade tra un passo e l’altro

Penso siano molte le persone che cercano di vivere una vita programmata: è un’esigenza per chi ha molti impegni! I nostri impegni sono gestiti da qualche app sul telefono, con suonerie che ricordano che è ora di partire per questo o per quell’altro luogo.

Io ho imparato che questa programmazione dettagliata, pur utile per non perdere troppo tempo, è del tutto illusoria, perché quasi mai accade che la giornata si svolga come è scritto nell’agenda. Ho scoperto che, mentre sto facendo qualcosa, accade altro che non avevo programmato o che, mentre mi sposto tra un impegno e l’altro, incontro qualcuno che mi chiede di fermarmi, di mettere da parte la mia programmazione e riconoscere quanto sta accadendo come importante.

Era l’ottobre 1994 e avevo deciso di ordinare la mia scrivania che risultava insostenibilmente ingombra di riviste e fogli vari. Tra le varie riviste c’era un settimanale che l’Azione Cattolica inviava a coloro che avevano incarichi diocesani (io ero assistente dell’ACR). Erano veramente molti i numeri che si erano accumulati, ancora tutti incellofanati: avevo deciso di prenderli in blocco e gettarli via, ma, mentre lo facevo, uno mi è caduto e mi sono dovuto chinare per raccoglierlo. Lo sguardo si è fissato sull’indice e ho notato un articolo che mi incuriosiva; mi sono fermato per leggerlo con attenzione: parlava di un’iniziativa dell’AC che riguardava la diocesi di Sarajevo (che in quegli anni si trovava in guerra) e subito mi è venuto in mente che quella proposta poteva essere molto adatta per i nostri ragazzi dell’ACR. Mi sono messo subito in movimento telefonando a diverse persone. Da quel preciso momento è partita per me una successione di eventi che mi ha portato per diversi anni a viaggiare in Bosnia e a stringere amicizie che, ancora oggi, sono molto importanti. Ho sempre letto come una provvidenza quello che è accaduto quel giorno. Ho riconosciuto in quella storia che mi ha legato in modo forte alla diocesi di Sarajevo una chiamata del Signore ad allargare il mio sguardo per incontrarlo là, lontano da casa mia, in un luogo ove erano accadute cose terribili, ma dove anche io ero chiamato a fare qualcosa per contribuire alla rinascita della pace. Tutto questo era partito mentre ordinavo la mia scrivania.

Mi viene in mente un episodio del Vangelo a cui sono molto affezionato.
Un uomo di nome Giaìro invoca l’aiuto di Gesù perché sua figlia sta morendo. Gesù accoglie la richiesta di quel padre, ma, mentre stanno andando a casa di Giairo, una donna, che da molti anni soffriva di gravi emorragie, decide in approfittare della presenza di Gesù e, con fede, tocca i suoi abiti per ottenere la guarigione. C’è molta folla intorno a Gesù, ma Gesù si ferma perché vuole conoscere chi lo abbia toccato. Quella donna prende coraggio e si fa avanti. Lei sa che, secondo la Legge, non avrebbe dovuto essere lì e non avrebbe potuto toccare nessuno, perché una donna che perde sangue è impura e rende impuro tutto ciò che tocca. Ma la sua disperazione era grande e racconta a Gesù ogni cosa. L’incontro si protrae per qualche minuto… Mentre leggo quelle parole, mi metto nei panni di Giairo; sento dentro di me la sua urgenza che, in silenzio, grida a Gesù che non c’è più tempo, che sua figlia sta morendo… e infatti accade proprio così: qualcuno viene a dirgli che ogni speranza è perduta.

L’incontro con quella donna, che aveva sottratto a Gesù del tempo prezioso mentre si stavano recando a casa per curare la figlia in situazione gravissima, per Giairo poteva essere letto come una sventura, come un grave rifiuto di Dio, come un’interferenza nefasta. Ma Gesù è ancora lì e vuole guarire sua figlia. Quel “mentre” che Gesù trascorre con la donna malata non è tempo sottratto a Giairo e a sua figlia, perché Dio, che agisce sempre e vive l’eterno, ha sempre tempo per venirci in aiuto.

Anche a noi può sembrare qualche volta di aver perso un’occasione preziosa, di aver mancato l’appuntamento per un soffio perché, mentre tutto sembrava andare per il verso giusto, qualcosa si è frapposto tra noi e il Signore. Ma Dio ha sempre un tempo per noi, per guarirci, per venirci incontro, per salvare la nostra vita; magari mentre sta andando a casa di qualcun altro. Nella nostra vita super programmata, forse a Dio rimangono solo “i nostri mentre” per parlarci, per farci comprendere qualcosa di importante, per stupirci con qualcosa di inatteso. Proprio in quei mentre qualcosa di divino accade.

Qui l’articolo pubblicato sulla rivista Se Vuoi:

Sotto ricatto

Foto tratta dal sito di Euronews

Come si risponde ad un ricatto quando questo coinvolge delle persone innocenti strumentalizzate per giochi internazionali di potere?
Come si risponde a chi usa la vita e la salute di uomini, donne e bambini a cui era stata promessa una via di fuga da condizioni di vita insostenibili e disumane e dalla guerra per collocarli forzatamente in mezzo ad un nuovo conflitto?

Siamo di fronte a governi senza scrupoli, che si fanno beffe dei diritti fondamentali delle persone e che, in vista di interessi altri, usano la loro vita innocente per mettere sotto ricatto un intero continente, svelando l’ipocrisia che impedisce all’Europa di fare semplicemente la cosa giusta accogliendo duemila (non ventimila, non duecentomila) disperati che sono stati posti in modo deliberato in condizione di estremo pericolo, questa volta non da trafficanti di uomini, ma da governi che pretendono di essere riconosciuti come legittimi da altri stati.
Come si risponde ad un situazione di questo genere?
La risposta che arriverà nei prossimi giorni, probabilmente, sarà quella di nuove sanzioni economiche contro Bielorussia e Polonia, scelte che inaspriranno ancora di più una relazione già difficile con la UE e con la Russia.
Ma era davvero così difficile aprire la porta a quelle persone, testimoniando un’umanità e una giustizia che sa difendere il più debole, per poi redarguire e condannare il criminale?
Perché i governi d’Europa (compreso il nostro), che si sono scapicollati con ponti aerei per mettere al sicuro gli afgani in pericolo per l’ascesa al potere dei talebani, non hanno adottato la stessa modalità nei confronti di coloro che si trovavano ugualmente vittime di governi indisponibili al rispetto dei diritti umani? Qual è la differenza?

Il ricatto del gas metano
Abbiamo invece lasciato che Russia e Bielorussia ci ricattassero con la minaccia di chiudere il rubinetto del gas metano, di cui l’Europa, soprattutto in questo anno di scarse risorse, ha estremo bisogno, permettendo loro di portare avanti questo gioco perverso e rimanendo spettatori che – come avviene in una partita di calcio – si accontentano di protestare, alzare la voce e ingiuriare la squadra che si comporta in modo falloso, senza muovere un dito.
Molti si lamentano giustamente dell’aumento considerevole del gas metano. Ma ogni volta che vado alla pompa per il rifornimento io mi chiedo quante vite è costato quel pieno di gas? quanti bambini, donne e uomini in questo momento vengono maltrattati, usati e lasciati a morire di fame e di freddo per consentire a me, cittadino europeo, di poter fare il pieno alla mia auto, di poter riscaldare la mia casa, di poter cucinare il mio pranzo in santa pace, magari lamentandomi per l’aumento dei prezzi?

Dall’indignazione passa alla provocazione e all’azione
Poiché, come direbbe Greta Thumberg, di fronte a problemi così evidenti e così gravi non ci possiamo accontentare dei «bla, bla, bla», e io non desidero accodarmi alla schiera di coloro che in queste settimane di sono pubblicamente stracciati le vesti di fronte a questi crimini senza fare nulla per timore delle conseguenze, lancio una provocazione che potrebbe declinarsi in due azioni concrete.
La provocazione politica potrebbe chiamarsi “lo sciopero del freddo” (simile allo sciopero della fame) e tradursi in queste o altre azioni concrete:
– Se ci stanno ricattando tenendo in ostaggio persone innocenti con la minaccia di interrompere il rifornimento del gas metano, possiamo fare la scelta di spegnere il riscaldamento nelle nostre case, nelle nostre chiese, nei luoghi in cui ci ritroviamo, per affermare che preferiamo soffrire anche noi il freddo piuttosto che stare al caldo al prezzo dell’ingiustizia e della vita di quelle persone.
– La seconda azione è rivolta soprattutto ai più giovani. Per dimostrare che non siamo indifferenti rispetto a quanto accade ai confini dell’est Europa, scegliamo di vivere un tempo all’aperto (un weekend, una settimana, qualche giorno), dormendo in tenda, mangiando e lavorando all’aperto, subendo le condizioni atmosferiche a cui vengono sottoposti bambini piccolissimi, donne e anziani, in un clima molto più rigido di quello che viviamo alle nostre latitudini.

Contro l’indifferenza
Qualcuno potrebbe obiettare che tutto ciò non serve a nulla, che non cambia di un centimetro la condizione di ingiustizia di quelle persone. Vero! Ma almeno dimostra che noi non siamo indifferenti; consente a noi di dire che non possiamo accettare che le persone siano trattate in questo modo e che il nostro benessere, sempre più costoso in termini economici e umani, sia garantito attraverso la sofferenza di uomini donne e bambini. Almeno dimostreremo di essere rimasti umani.

Il vescovo in mezzo

Il vescovo Giovanni Mosciatti nel giorno del suo ingresso a Imola nel 2019 (Foto de “Il Resto del Carlino”)

Oggi ho avuto la grazia di partecipare ad un bel funerale: Franco, padre di Stefano, un seminarista del primo anno, ha concluso il suo cammino terreno, dopo un ultimo tratto molto faticoso a causa di una malattia grave.
Nella celebrazione delle esequie abbiamo vissuto un momento di grande intensità ecclesiale: una famiglia numerosa, attorniata da una comunità parrocchiale ancora più numerosa, ha affidato un fratello alla misericordia di Dio, rendendo grazie per il dono della sua vita e chiedendo che la sua testimonianza continui a portare frutto. Tutto si è svolto in un clima semplice, ma molto intenso.

La celebrazione è stata presieduta dal vescovo di Imola, mons. Giovanni Mosciatti, che ha fatto la scelta di lasciare l’onere dell’omelia a don Leo, parroco della collegiata di Lugo, il quale, commentando le letture scelte per l’occasione, ha potuto tratteggiare la testimonianza cristiana di Franco grazie alla conoscenza profonda che aveva coltivato con lui e con la sua famiglia.
Mi ha molto colpito che il Vescovo abbia scelto di partecipare ad un momento molto forte per una famiglia e per una comunità parrocchiale, mettendosi semplicemente in ascolto, condividendo il ringraziamento a Dio e la preghiera di quella comunità.
Questo modo di essere presente mi ha fatto tornare in mente quel passaggio di Evangelii gaudium dove papa Francesco afferma: “Il Vescovo … a volte si porrà davanti per indicare la strada e sostenere la speranza del popolo, altre volte starà semplicemente in mezzo a tutti con la sua vicinanza semplice e misericordiosa, e in alcune circostanze dovrà camminare dietro al popolo, per aiutare coloro che sono rimasti indietro e – soprattutto – perché il gregge stesso possiede un suo olfatto per individuare nuove strade” (n. 31).

Sinodalità e leaders

Giovani e vescovi – Chiese della Lombardia

Uno dei libri della Bibbia che narrativamente risulta più appassionante è il libro dei Giudici. Racconta del tempo in cui il popolo di Israele, insediatosi nella terra promessa, cercava di costruire una sua storia, tra diverse difficoltà dovute soprattutto alla fatica a sostenere la “differenza” che lo caratterizzava rispetto a tutti gli altri popoli. Israele infatti non aveva ancora un re che lo governava, perché il Signore Dio era il suo Re.
Questo “vuoto di governo” creava un certo smarrimento, che si rivelava nella difficoltà a rimanere fedeli all’Alleanza con Dio, all’osservanza della Legge, lasciandosi ammaliare dai culti pagani dei popoli circostanti che sembravano più semplici e maggiormente corrispondenti alle esigenze religiose. Tale infedeltà portava il popolo d’Israele a ricadere in qualche forma di schiavitù e ad essere soggiogati dai popoli confinanti; l’asservimento e la situazione di sofferenza ha provocato più volte l’invocazione di aiuto a Dio, che rispondeva suscitando un liberatore (un giudice), il quale liberava Israele e lo riportava all’osservanza della Legge e alla fedeltà all’Alleanza.

Il dinamismo è semplice e sembra convincente anche per noi: in un momento di crisi ecclesiale, come quella che anche noi viviamo, accentuata dalle conseguenze della pandemia, ci verrebbe naturale invocare il sorgere di uno o più leaders che ci aiutino a venirne fuori, a ricuperare la rotta; che ci motivino e ci guidino sui passi che siamo chiamati a compiere per uscire da una situazione di stallo in cui percepiamo di essere finiti.
Ciò che accade nella società civile e nel contesto politico sembrerebbe orientarci a riconoscere la convenienza di un leader forte e decisionista, con un ampio consenso politico su cui contare, che si assuma la responsabilità del governo e delle scelte, soprattutto di quelle impopolari e scomode (ancorché necessarie).

A fronte di questa possibilità, che a molti sembrerebbe logica e conveniente, la Chiesa risponde con la proposta di un percorso sinodale che, al contrario, chiama tutti alla partecipazione e alla corresponsabilità per recuperare la via del Vangelo e della missione, e per ritornare a percorrerla tutti insieme come popolo.
La via sinodale non è semplice e neppure comoda, ma ci può aiutare a crescere nello spirito del Vangelo, partendo dalla fiducia nello Spirito che guida la Chiesa e che agisce in tutti i battezzati. La via sinodale ci aiuta a rinunciare alla logica del potere e del dominio per aderire sempre di più alla proposta del servizio e dell’umiltà (Cfr. Mc 10,35-45).
A molti parrà una via lenta e poco efficiente, incapace di stare al passo con la velocità che caratterizza questo tempo e dunque inadeguata. Essa si confronta non con i moderni costruttori di grattacieli, che realizzano enormi costruzioni in pochi mesi, ma con gli antichi costruttori delle cattedrali, uomini e donne che intraprendevano un’opera collettiva, dedicando ad essa tutta la loro vita, pur consapevoli che non ne avrebbero visto la conclusione, ma altrettanto consapevoli che tale gioia sarebbe toccata alle molte generazioni successive, fino ai nostri giorni.

Come è stato scritto da più parti da persone molto competenti, il percorso sinodale è un metodo da imparare: dopo molti secoli di storia ecclesiale segnata da altri modelli, siamo chiamati a riappropriarci di quello stile di corresponsabilità che caratterizzava la Chiesa apostolica, consapevoli che c’è una fatica iniziale da mettere in conto per avviare quei processi che ci consentiranno di imparare e – progressivamente – assumere quello stile che la Chiesa stessa ci invita a fare nostro. E’ probabile – come accade nel campo della tecnologia – che i più giovani diventino più velocemente esperti di questa modalità; a noi adulti e anziani, abituati a “dire l’ultima parola” su tutto, è opportuno richiamare la responsabilità di non bloccare tali processi, di condividere la fatica di soluzioni inizialmente imprecise ed imperfette, di sostenere un cammino in cui il nostro impegno sarà chiaramente orientato a costruire una realtà che noi non potremo vivere, ma che, grazie anche al nostro contributo, potranno godere coloro che verranno dopo di noi.

Bella è l’immagine delle chiese della Lombardia che hanno convocato i giovani per chiedere loro quali siano le priorità su cui camminare, ponendo i vescovi di quelle diocesi in un ascolto concreto e in un dialogo alla pari. E’ il segno di una comunità che ci prova, che inizia, che si mette in cammino … il resto verrà perché la strada, se ci si mette in cammino, “si apre passo dopo passo“.

Tracce di santità

In meno di un mese abbiamo avuto l’opportunità di partecipare a due “beatificazioni”: ieri quella di Sandra Sabattini e, alla fine di settembre, quella di don Giovanni Fornasini. Moltissimi gli elementi di comunanza, altrettanti quelli che li distinguono.

Ciò che li rende assolutamente “fratelli” è il desiderio espresso chiaramente di vivere la propria vita come un dono per gli altri, senza trattenere nulla per sé stessi. Nel Diario che Sandra ha lasciato e nelle pochissime parole scritte che si sono rimaste di don Giovanni viene dichiarato con semplicità e radicalità questo desiderio di spendersi totalmente nella carità, soprattutto verso coloro che sono i più abbandonati.

C’è un elemento che mi colpisce molto nel confronto tra questi due giovani testimoni, un elemento di distinzione che mi lascia una fortissima provocazione.
Di don Giovanni ci sono rimasti pochissimi scritti, redatti per lo più durante gli anni del seminario. Oltre alle testimonianze della gente che lo ha conosciuto e che ha toccato con mano la sua carità, la traccia determinante per riconoscere il suo martirio è stata data dall’analisi dei suoi resti mortali. Il suo corpo, nonostante sia stato “abbandonato” ed esposto per sei mesi dietro il cimitero di san Martino, ricuperato dal fratello e sepolto, a distanza di anni “ha raccontato” ciò che don Giovanni ha subito per mano dei suoi uccisori ed ha certificato che la sua morte è da considerare un vero martirio.
Di Sandra, al contrario, l’unica traccia “sensibile” che ci è rimasta, oltre alla testimonianza dei tantissimi che l’hanno conosciuta, è il suo Diario, diffuso da don Oreste Benzi negli anni immediatamente successivi alla morte avvenuta per un incidente stradale; sono quelle pagine che ci raccontano la santità da Sandra, il suo dialogo intimo con il Signore, il suo desiderio di dono totale di sé stessa ai poveri, le risonanze sulle esperienze vissute e le riflessioni elaborate nei momenti di ritiro con la Comunità Papa Giovanni XXIII. Del corpo di Sandra, invece, non è rimasto nulla, come se non fosse necessario per custodire la sua testimonianza.

Come mi ha fatto notare don Giampiero ieri sera, di ognuno dei due ci è stato lasciato e ci è rimasto solamente ciò che ci serviva per comprendere la testimonianza della loro vita. La crudezza dei dati dell’autopsia di don Giovanni e la radicalità delle parole di Sandra riportate nel Diario, sono come le tracce che dobbiamo seguire per camminare nella via della santità che loro ci hanno indicato: una via esigente e seria; una via che non lascia troppo spazio a devozionismi e “santini”; una via che, dopo le grandi emozioni condivise nei due eventi di “beatificazione”, ora abbiamo il dovere di seguire.

La tentazione del potere

per iniziare il cammino sinodale dal Vangelo

Ci sono delle coincidenze che vanno riconosciute semplicemente.
E’ importante coglierle perché l’incontro tra la Parola e l’evento sono spesso segno dell’intervento di Dio per noi; ma come afferma san Paolo, se non c’è chi interpreta le profezie, queste risultano inutili (Cfr. 1Cor).

Ieri nelle chiese diocesane di tutto il mondo si è aperto il Sinodo. Quasi ovunque questa “apertura” è avvenuta nel contesto di una celebrazione eucaristica. Il vangelo proclamato in tutte queste celebrazioni è stato preso dal Lezionario della XXIX domenica dell’anno liturgico “B”, che riportava un testo del vangelo di Marco in cui Gesù dialoga con i discepoli sul tema del potere (Mc 10,35-45).

Il potere, insieme al denaro, è uno degli argomenti “tabù” delle comunità cristiane (a tutti i livelli, non solo nei contesti clericali). Un certo moralismo diffuso ci impedisce di parlarne esplicitamente per coglierne l’ambiguità intrinseca, quella che invece Gesù nel Vangelo denuncia in modo molto chiaro ai suoi discepoli. Tale ambiguità autorizza molte persone – anche tra i/le credenti – a pensare che il potere possa essere una cosa buona se è ispirato da buone intenzioni o da obiettivi meritevoli.
Leggendo il Vangelo, però, non sembra che questo sia il parere di Gesù. Più volte, infatti, gli è stato offerto di assumere una posizione di potere; il popolo stesso più volte avrebbe voluto porlo in una posizione di dominio, ma Gesù si è sempre guardato da questa possibilità, l’ha rifuggita sempre come una tentazione. Chi, se non Lui, che era buono e agiva solo spinto dall’amore, avrebbe potuto usare bene il potere? Nelle mani di chi, se non nelle sue, il potere avrebbe potuto essere al sicuro ? Ma Gesù non lo ha scelto!

A Giacomo e Giovanni, che domandano una posizione di potere e di prestigio, Gesù richiama la differenza che dovrebbe caratterizzare chi si è posto alla sequela del Vangelo. Se tale logica è comune nel mondo tra coloro che sono ritenuti grandi e dominano, tra i discepoli non può essere così: chi vuole essere grande o il primo deve essere il servo di tutti, ad imitazione di Colui che si è spogliato della sua natura divina e si è fatto servo fino al dono della vita. Questo il Vangelo ascoltato ieri!

La coincidenza con l’apertura del Sinodo, rispetto al quale non sono poche le perplessità esternate da diversi membri della comunità cristiana, ci richiama ad una questione ineludibile: quella dell’esercizio dell’autorità all’interno della comunità. La scelta della forma sinodale nell’esercizio della missione della Chiesa, non può non fare i conti con il tema dell’autorità vissuta come servizio o come potere. Il fatto che il Vangelo, proprio ieri, ci abbia riportati lì non può essere una coincidenza fortuita!
La missione e l’annuncio del Vangelo partono dalla testimonianza di una differenza che deve emergere nel vissuto del cristiano; il Vangelo ci dice che una dimensione dell’umano su cui siamo chiamati a dare testimonianza in modo cristallino, è proprio del come viene vissuta l’autorità dentro la comunità: o viviamo nel modo che ci parla chiaramente di Gesù, oppure diviene evidente che abbiamo perduto il senso di quella differenza (non è così tra voi!) a cui il Signore ci richiama con forza.

Questo tema sembra investire primariamente chi, nella comunità, svolge un ruolo di autorità, ma, secondariamente, richiama tutti a verificare come ognuno/a di noi, nelle responsabilità che gli/le vengono affidate (famiglia, chiesa, professione, associazioni, reti sociali), vive il servizio dell’autorità. E’ una questione che coinvolge la Chiesa intera proprio mentre rinnova il suo impegno per la missione.

Rosanna Virgili, biblista italiana molto conosciuta, in un libretto di qualche anno fa, mentre commenta il testo del Vangelo che abbiamo ascoltato ieri nella celebrazione domenicale, indica cinque attenzioni che la Chiesa dovrebbe tenere presente per preservarsi dalla tentazione del potere e vivere il servizio (la diaconia) ad imitazione del Maestro:
– Gesù è servo perché ascolta. Tutto quello che lui fa nei vangeli è una risposta e non una proposta. La Chiesa diventa “di potere” quando non ascolta.
– Gesù è servo perché si mette su un piano orizzontale con le persone e con le folle; tale postura si esprime nella disponibilità a dialogare senza timore, anche in un confronto democratico.
– Gesù è servo perché prende su di sé il dolore e il peccato del mondo, non ha paura di farsi contaminare, di “perdere potere”. Anche la Chiesa è chiamata a vivere questa prossimità facendo propri i dolori delle persone e anche il loro peccato (pur senza complicità).
– Gesù è servo perché sa trasformare le parole in parabole. Sappiamo come il potere usi e manipoli la realtà e le persone attraverso le parole. C’è una grossa riflessione sul linguaggio, sulla comunicazione ecclesiale che si deve confrontare con la scelta di uno stile di servizio.
– Gesù è servo perché è tutto donato, perché la sua vita non è fine a sé stessa. La Chiesa è di potere quando è autoreferenziale, quando perde di vista per chi vive e perché è stata costituita da Cristo sacramento di salvezza per il genere umano.
(Cfr. R. Virgili, Il Figlio dell’uomo è venuto per servire (Mc 10,45). Permanenza ecclesiale del paradosso. in Servizio e potere nella Chiesa, (R. Fiorini ed.), Gabrielli Editori 2013, pp. 83-95).

Non credo che questi temi siano ancora entrati in nessun programma sinodale delle nostre comunità diocesane, ma la parola del Vangelo, ascoltata nella liturgia di ieri, me li ha fatti cogliere come un punto da cui partire e da cui potrebbe prendere vita quel percorso che a molti pare piuttosto incerto.

11 settembre 2021: il primo giorno della pace?

Gli anniversari non sono inutili per chi spesso si trova travolto dalle questioni quotidiane che rischiano di far perdere di vista l’orizzonte.
Ricordare oggi quello che accadde venti anni fa a New York, non può limitarsi a consumare un po’ di emozioni forti (rabbia, commozione, frustrazione), ma può essere una buona occasione per riportarci al punto centrale della questione che rischiamo di perdere di vista: siamo di fronte ad una sfida epocale che coinvolge l’umanità; se non percorriamo vie che garantiscano la pace, la giustizia, il necessario per vivere per tutti gli uomini e le donne che abitano su questo pianeta, noi saremo sempre in guerra.

La crisi climatica e ambientale, la pesantissima disparità delle condizioni di vita nelle varie parti del mondo, la crisi demografica dell’Occidente, la crisi migratoria … tutto è connesso e tutto questo è causa di guerra. Certo le ideologie e i fondamentalismi fanno la loro parte e rimangono ingiustificabili, soprattutto quando intraprendono la via radicale della violenza; ma esse non nascono dal nulla: trovano un ottimo terreno di coltura nella disperazione, nella frustrazione di tanti giovani, nell’impossibilità di poter provvedere ai bisogni essenziali della propria famiglia, dei propri figli… queste condizioni alimentano la rabbia che a sua volta è il combustibile di ogni guerra.

La domanda più interessante di oggi non mi sembra sia: “dove mi trovavo l’11 settembre 2001?“, quanto piuttosto: a venti anni da quei terribili eventi e dopo tutto quanto di terribile in questi venti anni è accaduto, cosa posso fare io, cosa possiamo fare noi, cosa può fare il nostro Paese, cosa può fare l’Europa per consentire alla pace di fare un passo in avanti e disinnescare le condizioni che portano alla guerra?
Poiché non ho responsabilità dirette riguardo l’Italia e tantomeno l’Europa, se non quelle che vengono concesse ad un elettore, mi limito a condividere alcune piste che riguardano me e noi (inteso come le varie comunità in cui sono coinvolto).

1. Possiamo pregare per la pace ogni giorno.
A molti può sembrare banale e ingenuo, ma la preghiera non è un’invocazione che deresponsabilizza e affida a Dio quello che noi non possiamo fare. Essa è come un fiume carsico che scava dentro la nostra vita e ci consente di guardare noi stessi, le persone che sono intorno a noi, le situazioni in cui ci troviamo a vivere e a compiere delle scelte in un modo che non è più soltanto “mio”, ma che via via assume lo sguardo di Dio. La preghiera ci converte e ci aiuta a divenire donne e uomini di pace, ci aiuta a trovare la forza per compiere quelle scelte che diventano opere di pace e di riconciliazione, fino ad arrivare ad amare il nostro nemico e a pregare per chi ci perseguita (come insegna chiaramente il Vangelo).

2. Alimentiamo la disponibilità all’accoglienza di chiunque si trova in difficoltà.
L’accoglienza, da sempre è il primo gesto di pace e la testimonianza di una capacità di guardare le persone a partire dalla loro dignità di uomini e donne, dando una risposta semplice ai loro bisogni nello stile della condivisione. L’ideale evangelico sarebbe quello di un’accoglienza incondizionata, ma, per essere realisti, riconosciamo che ci sono alcune condizioni che ci possono limitare. Allora il nostro impegno, oltre che all’accoglienza, sarà anche rivolto a creare le condizioni favorevoli (rimuovendo gli ostacoli sul piano politico, economico, sociale, culturale, religioso) perché questa non debba bloccarsi o limitarsi pregiudizialmente. L’accoglienza, per un cristiano, avrà sempre come riferimento il Vangelo che non dovrà né potrà essere offuscato da ideologie, speculazioni e pragmatismi oggettivamente ingiusti e disumani (ogni riferimento alle politiche europee di respingimento o di delega a paesi terzi nella gestione della “crisi migratoria” non è affatto casuale).

3. Consentiamo a tutti (soprattutto ai giovani) uno sguardo di speranza sul futuro.
Una delle cause più radicate della guerra e delle violenze è data dall’impossibilità, per molte persone nel mondo, di pensare ad un futuro di bene per loro stessi e per coloro che amano. Se non ho la possibilità reale di vedere un futuro buono per me, allora posso salire su un aereo e decidere di schiantarmi contro un grattacielo; oppure indossare un giubbotto esplosivo e farmi esplodere in mezzo ad altre persone. Se non riesco a vedere un futuro buono, se la mia vita non conta nulla, io posso diventare un arma, assumendo uno scopo perverso per la mia vita.
Possiamo riconoscere dignità alle persone, soprattutto ai giovani, se concediamo loro la possibilità di un futuro. Tale impegno coinvolge prima di tutto gli educatori e gli insegnanti, ma anche coloro che disegnano le politiche economiche e finanziarie: se non superiamo la logica assoluta del profitto e non ricuperiamo il primato del lavoro dell’uomo sul capitale (Cfr. Giovanni Paolo II, Laborem exercens, n. 13), noi non riusciremo ad aprire prospettive di futuro e di pace.
In questo sguardo sul futuro un ruolo fondamentale lo riveste l’impegno per la cura della casa comune che è il creato. I dati scientifici non lasciano spazio a dubbi: il futuro del nostro pianeta è in pericolo e alcune scelte sono urgenti; ognuno può fare qualcosa e insieme possiamo fare molto (padre Pino Puglisi).

4. Assumiamo la fraternità come criterio base per ogni relazione. La guerra si alimenta quando lo sguardo pregiudiziale su ciò che ci rende diversi impedisce la fraternità; molte ideologie si frappongono a questa prospettiva, ma in realtà molto dipende solo da noi. Se io scelgo di guardare come fratelli e sorelle tutti coloro che il Signore pone sulla mia strada, se scelgo di incontrarli in modo disarmato, riconoscendo la loro dignità di uomini e donne, mettendomi in ascolto dei loro sogni di vita; se mi lascio coinvolgere nella relazione con l’altro, accettando l’avventura del dialogo nonviolento, allora io ho una possibilità per vivere e far crescere la fraternità.
La fraternità, per definizione, non dipende da noi perché ci è data; però dipende solo da noi come viverla.

5. Dobbiamo essere preoccupati per la giustizia e le legalità.
L’ingiustizia e l’illegalità sono un altro terreno di coltura per la guerra. Noi tutti viviamo in una cultura molto tollerante verso l’illegalità; spesso riteniamo che essa sia legittima e che non rechi alcun danno al mondo. Oramai sappiamo bene che non è così!
Nel solo 2020, in Italia, l’ammontare dell’evasione fiscale corrisponde a circa 110 miliardi di euro, una somma che è più della metà del famoso Recovery found che – provvidenzialmente – abbiamo ottenuto dall’Europa. Certo posso pensare che tale cifra non dipenda da me; ma dipende anche da me e soprattutto dal mio (nostro) modo di pensare che giustifica coloro che si esonerano dalla contribuzione.
Qualcuno potrebbe affermare che ci troviamo di fronte a leggi ingiustamente vessatorie; se fosse questo il caso, l’unico percorso sarebbe quello del cambiamento della legge, attraverso il processo democratico e parlamentare che non ammette il ricorso all’evasione.
Il tema della giustizia è ancora più complesso perché, per noi cristiani, non coincide e non si risolve con il rispetto delle leggi, ma sicuramente da lì può partire. Nessuno di noi si può esonerare pregiudizialmente da tale osservanza e un’eventuale obiezione di coscienza sarà motivata solo da un rispetto più grande della giustizia. E’ una cultura che dobbiamo far crescere e a cui dobbiamo educare se vogliamo costruire la pace.

Nella nostra vita ci sono degli appuntamenti che possiamo cogliere o che possiamo lasciar perdere; opportunità che ci vengono concesse per dare una svolta alla nostra vita, per riprenderla in mano e assumerci la responsabilità del bene che ci è possibile compiere.
La commemorazione delle sofferenze e delle ingiustizie subite, se – come è accaduto spesso in questi venti anni – alimentano la rabbia e la vendetta, il senso di inimicizia e di contrapposizione, non portano al mondo che violenza, morte e distruzione. La storia ci ha insegnato che il motto “se vuoi la pace, prepara la guerra“, non ha mai portato pace, ma solo altra guerra.
Solo la pace porta la pace; solo la giustizia porta la pace; solo la fraternità porta la pace; solo l’accoglienza e la condivisione portano la pace; solo una preghiera fatta con umiltà porta la pace.
Oggi, per tutti coloro che decidono di cogliere l’occasione di questo appuntamento datoci dall’anniversario degli attentati realizzati a New York, può essere il primo giorno di impegno per un mondo di pace.
Dipende anche da me. Dipende anche da noi.

Signore facci strumenti della tua pace.

Centoquarantadue

Siamo in due, ci divertiamo a condividere i pensieri e a trasformarli in parole

The Starry Ceiling

Cinema stories

Inquietudine Cristiana

«Quando il Figlio dell'uomo verrà, troverà la fede sulla terra?»

Simone Modica

Photography, Travel, Viaggi, Fotografia, Trekking, Rurex, Borghi, Città, Urbex

SantaXColombia

La Compagnia senz'anello

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: