La scaltrezza di Paolo … e la sua sottomissione a Dio

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La lettura degli Atti degli Apostoli proposto oggi dal lezionario feriale (At 22,30.23,6-11)  ci presenta uno dei testi più interessanti sulla fisionomia di Paolo. Arrestato dalle autorità di Gerusalemme viene portato davanti al Sinedrio per essere giudicato. Il Sinedrio non è un luogo estraneo a Paolo: il “vecchio Saulo” era di casa in questo consesso e conosceva bene le sue dinamiche interne.

Paolo non resiste e, con scaltrezza e furbizia, propone un bel trabocchetto che chiama i presenti a schierarsi non in merito a lui, ma alla fede nella risurrezione, professata dai farisei e negata dai sadducei. Ovviamente l’esito che Paolo ottiene è quello di scatenare un dibattito così acceso che rischi addirittura di degenerare in una rissa con omicidio.

Il testo ci mostra un Paolo che mette in atto una strategia umana molto efficace che gli consente di uscire indenne dal quel pasticcio. Noi potremmo ammirare Paolo per la sua scaltrezza e la sua capacità di cavarsela, ma il testo di Atti ci mette in guardia da questa ammirazione che non corrisponde alla logica del Vangelo.

Gesù aveva detto ai suoi: “sarete condotti davanti a governatori e re per causa mia, per dare testimonianza a loro e ai pagani. Ma, quando vi consegneranno, non preoccupatevi di come o di che cosa direte, perché vi sarà dato in quell’ora ciò che dovrete dire: infatti non siete voi a parlare, ma è lo Spirito del Padre vostro che parla in voi“. (Mt 10,18-20) Paolo non sembra ispirato dalla Spirito nel pronunciare le sue parole davanti al Sinedrio; per questo il Signore Gesù, che gli appare in sogno, gli indica che un’altra è la strada che è chiamato a percorrere, quella che già aveva intravisto e che lo Spirito gli aveva suggerito, come aveva detto drammaticamente agli anziani della chiesa di Efeso (At 20,23-24).

Paolo è caduto nella tentazione di difendersi con le sue capacità, ma altrettanto prontamente aderisce alla volontà del Signore riconosciuta e, di fronte al governatore si dichiarerà cittadino romano appellandosi al giudizio dell’imperatore, per poter essere condotto a Roma dove arriverà in catene e rimarrà prigioniero per lungo tempo, probabilmente fino al martirio.

La via del Vangelo è una via che non ci domanda di essere passivi e di rinunciare all’esercizio della nostra intelligenza, ma ci potrebbe essere una scaltrezza che, pur ottenendo apparentemente uno buon risultato, non ci conduce per la strada che Dio ha pensato per noi.

Integrare non è solo stare accanto

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Una delle parole che negli ultimi tempi ricorrono più spesso nel linguaggio civile ed ecclesiale è la parola integrazione. Se ne parla a proposito del fenomeno migratorio che l’Italia finalmente sta imparando a cogliere come un qualcosa di non episodico con cui fare i conti; se ne parla nella Chiesa a proposito di prospettive di impegno pastorale …

Nei testi che la Diocesi di Rimini ha pubblicato sulla pastorale integrata si afferma con chiarezza che l’integrazione è molto di più che la semplice aggregazione, perché l’obbiettivo non è puramente funzionale, ma è puntare alla comunione.

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Questo pensiero, che per tanti versi potrebbe essere considerato scontato, mi porta a pensare che integrare non sia solo stare accanto, ma cogliere tutto il positivo che c’è nell’altro e farlo diventare mio e viceversa condividere tutto il bello di cui io sono portatore e consentire all’altro di sentirlo come suo patrimonio.

Nella esperienza ecclesiale questa integrazione dovrebbe essere più facile, in virtù del tanto che si condivide già in partenza, ma ci accorgiamo che non è esattamente così, perché molto dipende dal punto di vista. L’integrazione viene spesso considerato un processo asimmetrico, della serie: io sarei già a posto così come sono, ma poiché non posso ignorare la tua presenza decido di accogliere qualcosa di tuo che rappresenta un di più, non necessario.

Quando l’accoglienza dell’altro viene considerata un “di più non necessario” il processo di integrazione parte già inceppato. Non sei essenziale per me; sto bene anche senza di te; devi essermi grato perché considero la tua presenza accanto a me e ti riconosco come portatore di qualcosa di buono.

La sfida dell’integrazione, sia a livello sociale e civile che a livello ecclesiale, è un impegno che ci coinvolgerà molto nei prossimi anni e ci chiederà la capacità e la disponibilità di cambiare i nostri punti di vista. Sento importante tenere ben fisso davanti agli occhi che la comunione è il vero obiettivo verso cui dobbiamo convergere e che l’integrazione è “solamente” una via che ci consente di costruire e vivere questa comunione.

Venga il tuo Regno: … dove Dio regna veramente

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Oggi ho letto un testo dell’Apocalisse che afferma: “Ha preso possesso del suo regno il Signore, il nostro Dio, l’Onnipotente. Rallegriamoci ed esultiamo …” (Ap 19)

Questa espressione è consueta nel Nuovo Testamento, soprattutto nei vangeli sinottici ed ormai è entrata nel nostro orecchio, non ci scompone più… la ripetiamo, senza scossoni, ogni volta che recitiamo il “Padre nostro”, ma non avvertimo nessun disagio e nessun brivido lungo la schiena.

Ho chiesto a coloro che partecipavano alla celebrazione con me: Ma voi vi sentite tranquilli di fronte alla prospettiva che Dio regni veramente sulla nostra vita? Ci sentiamo di rallegrarci ed esultare perché Dio ha preso possesso del suo Regno? La domanda ha suscitato un certo imbarazzo finché qualcuno, prendendo coraggio, ha detto: io vorrei avere la possibilità di dire il mio parere in questo regno!.

Vivere in una prospettiva in cui sia Dio a regnare veramente non mi rende tranquillo perché non mi fido di lasciare a lui il timone della mia vita; per quanto io sia consapevole del mio limite e della mia inconsistenza, preferisco sbagliare con le mie mani piuttosto che affidarmi ciecamente ala guida di  Dio. In me – riguardo a Dio – non prevalgono le immagini rassicuranti e amorevoli del Vangelo e del Nuovo Testamento, piuttosto sono presenti immagini false e grottesche di Dio che gli attribuiscono la possibilità di cambiare umore, qualche possibile capriccio, la strumentalizzazione della mia vita … immagini demoniache di Dio che mi fanno stare ad una distanza timorosa da lui. Quante volte abbiamo pensato o detto “faccio questa cosa perché Dio non mi punisca” oppure, di fronte ad una situazione dolorosa e difficile “cosa avrò fatto di male per meritarmi questa cosa (da Dio)?” …

Il Regno di Dio, per me, è un luogo (una situazione) in cui avrei la pretesa di negoziare la sua volontà, di dire la mia sulle scelte opportune, … insomma un regno in cui anche io pretendo di avere un mio ruolo attivo.

In fondo, come ha detto chiaramente Gesù fin dall’inizio del suo Vangelo: “Il Regno di Dio è vicino: convertitevi!” (Cf. Mc 1,14), la questione che entra in gioco è la mia fede e l’esigenza della conversione e della purificazione da tutte le immagini false di Dio che trovo scritte e ben raffigurate nel mio cuore. Sono immagini arcaiche che anche i grandi personaggi della Bibbia come Abramo, Giacobbe e Mosé si portavano dentro; sono immagini che ci rendono schiavi e ci impediscono di vivere una relazione libera e fiduciosa con il Signore. E’ sempre l’immagine che il nemico di Dio proietta di fronte ai nostri occhi facendoci intendere che Dio ci vuole opprimere e la sua signoria non è altro che prepotenza e prevaricazione (Cf. Gen 3).

Questa gioia di cui parla il libro dell’Apocalisse, questo rallegrarsi ed esultare può essere solo di chi riconosce in Dio il Padre, l’Amore, la misericordia e la tenerezza … Di fronte a queste immagini non c’è nulla da temere, perché Dio non è che benevolenza e perdono.

Consegnare a Dio il timone della mia vita è un atto di fede e di vera conversione.

Meglio secondi a Roma che primi in Gallia; ovvero la bella spiritualità dei numeri due.

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Tutti conoscono il celebre detto attribuito a Giulio Cesare così diffuso nel nostro mondo clericale. Esso recita: “Meglio essere primi in Gallia che secondi a Roma”.  

La maledizione dell’essere secondi o “dipendenti” di e da qualcuno, sembra essere il peggiore dei mali da scongiurare. Meglio una soluzione di ripiego, che però mi garantisca la primazia, l’indipendenza, che una soluzione in cui mi devo trovare secondo a qualcuno.

Qualche giorno fa’ il nostro vescovo Francesco, durante il funerale di don Sisto Ceccarini – prete ottantacinquenne della Diocesi di Rimini, chiamato dal Padre dei cieli dopo un lungo travaglio nella malattia -, ha ricordato che per don Sisto non è stato mai un problema vivere “all’ombra di don Oreste Benzi”; anzi si è beato di questa bella relazione, nata fin dalla preadolescenza in seminario e continuata per tutta la vita. Don Sisto ha saputo riconoscere con semplicità il valore di una provvidenza che lo ha messo a fianco di uno come don Oreste ed ha vissuto quella che mi piacerebbe chiamare la spiritualità del numero due.

Mi sembra che riscoprire questa spiritualità sia particolarmente importante soprattutto per noi preti chiamati – per vocazione ministeriale – ad essere collaboratori del ministero episcopale.

La preghiera di ordinazione che il vescovo pronuncia sugli eletti al ministero sacerdotale si esprime così: “Ora, o Signore, vieni in aiuto alla nostra debolezza e donaci questi collaboratori di cui abbiamo bisogno per l’esercizio del sacerdozio apostolico. Dona, Padre onnipotente, a questi tuoi figli la dignità del presbiterato. Rinnova in loro l’effusione del tuo spirito di santità; adempiano fedelmente, o Signore, il ministero del secondo grado sacerdotale da te ricevuto …. Siano degni cooperatori dell’ordine episcopale, perché la parola del vangelo mediante la loro predicazione, con la grazia dello Spirito Santo, fruttifichi nel cuore degli uomini, e raggiunga i confini della terra“.

La nostra vocazione e il nostro ministero di preti si colloca essenzialmente in questa prospettiva della collaborazione e ci chiede di riscoprire la bella spiritualità dell’essere accanto a coloro che il Signore ha chiamato a presiedere la comunità. Necessariamente questa figura si identifica con il Vescovo, ma, provvidenzialmente, si potrebbe identificare anche con qualcuno (prete, diacono, laico, …) con cui io sono chiamato a collaborare in un ruolo paritario o subordinato.

Penso -per esempio- alle nuove situazioni che si verranno a creare con le zone pastorali e come avvertiamo, anche se non sempre siamo capaci di dirlo, che questo senso del perdere la primazia e l’indipendenza, dato dall’esigenza di una collaborazione tra parrocchie o dal dover fare i conti con la figura di un moderatore, lavora dentro di noi e ci impedisce di procedere con velocità verso quella direzione che la Chiesa ci ha indicato con chiarezza.

Sappiamo che la tentazione di pensare come Giulio Cesare non è lontana da noi.

La testimonianza di preti come don Sisto ci aiuti a vivere con semplicità il nostro compito ecclesiale.

Il Signore ci renda numeri due felici e sereni, liberi e gioiosi, efficaci anche in questa testimonianza evangelica che va davvero contro corrente.

La compassione di Dio

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Spesso la critica più radicale che viene rivolta a Dio è quella della sua indifferenza rispetto al male del mondo, alla sofferenza dell’uomo, all’ingiustizia subita dall’innocente.

Forse è questo il motivo per cui il vangelo insiste nel rivelarci un volto di Dio che si muove a compassione di fronte alla sofferenza e, cosa ben più importante, che si fa carico di questa stessa sofferenza.

Per noi la compassione si risolve spesso in un sentimento ed in un’emozione forte, ma non sempre la nostra emozione si converte in un’azione compassionevole. Altre volte la nostra azione è prevalentemente auto-consolatoria: non diventa una vera presa in carico, ma si risolve in una piccola cosa che risolve il nostro senso di colpa e ci fa sentire un po’ più buoni (è il caso degli sms solidali; una bontà certificata a buon mercato).

Non è questa la compassione di Dio che Gesù ci rivela. La sua compassione diventa condivisione e dono totale di sé stesso. L’icona più evidente della condivisione è quella del battesimo al Giordano in cui Gesù scende nell’acqua con i peccatori per testimoniare la scelta di immersione nella situazione di sofferenza dell’umanità. Quella del dono di sé lo abbiamo nella moltiplicazione dei pani. In quel gesto profetico Gesù rivela la via scelta da Dio per farsi carico della sofferenza dell’uomo; Gesù non interviene erogando un pane (magico) dal cielo, ma Gesù chiede ai suoi discepoli di donare tutto quello che hanno – in definitiva sé stessi – per testimoniare la loro compassione.

Ho trovato questo testo del card. Martini che credo possa ben concludere questa piccola riflessione.

Insegnaci, o Dio nostro Padre, una grande compassione, la compassione che tuo Figlio Gesù ha mostrato nella vita e nella croce. Insegnaci come la compassione, la bontà, l’amore siano vitali per il futuro dell’umanità. Insegnaci a capire noi stessi, a superare le differenze di lingue, di culture, di tradizioni così da saper cogliere la verità presente in ogni persona umana, perché tutti siamo amati da te, o Padre, tutti siamo stati creati da te quali figli nel tuo Figlio, tutti siamo ricolmi dello Spirito santo che ci muove alla confessione e alla riconciliazione. Amen.

Card. Carlo Maria Martini, Vedere il mondo con gli occhi di Dio, In dialogo

Integrare verbo prezioso

Quando io ero giovane esisteva l’anno e l’esame integrativo cui si dovevano sottoporre gli studenti degli Istituti Magistrali se volevano accedere all’università: il loro percorso era infatti di soli quattro anni.

Poi abbiamo cominciato a conoscere gli integratori alimentari che servivano per sostenere un’alimentazione carente di alcuni elementi necessari al soggetto.

Il termine integrazione ha sempre posseduto anche una forte componente sociale per indicare il processo di inserimento in un determinato contesto socio-culturale di persone che provenivano da altri contesti culturali: l’integrazione sembrava un obiettivo ideale da raggiungere, molto meglio dell’aggregazione, dell’assimilazione o dell’omologazione.

Da qualche anno questo termine è entrato anche nel linguaggio ecclesiale associato, spesso ad un altro termine che, a partire dal Concilio Vaticano II ha assunto un valore nobile; il termine pastorale.

Pastorale integrata è un’espressione à la page che si trova spesso sulla bocca degli addetti ai lavori e -ahimé- anche sulla mia. Attualmente questa espressione viene utilizzata con due valenze principali che – a volte – tendono a confondersi. Due parole sommarie per orientarsi.

La prima valenza è quella assegnata all’espressione dal Convegno ecclesiale di Verona del 2006 durante il quale, a seguito di un’analisi preoccupata riguardo alla tendenza verso una frammentazione specialistica del’azione pastorale ecclesiale, si è proposta una nuova visione della pastorale che ponga al centro la persona con i dinamismi fondamentali della sua esistenza come ambiti e occasioni di evangelizzazione e di crescita nel’esperienza della fede. Non più quindi una pastorale che si strutturi secondo settori di competenza e di governo (catechesi, liturgia, carità, sociale, famiglia, scuola …), ma un’azione pastorale che tenga presenta la persona nella sua unitarietà e colga gli ambiti della sua vita in cui è più urgente un’azione evangelizzatrice (fragilità, affetti, tradizione, cittadinanza, lavoro e festa).

Una seconda valenza che si sta imponendo riguardo a questa espressione è quella che interpreta il processo di riorganizzazione territoriale in atto in diverse diocesi che, per far fronte alle esigenze di una nuova evangelizzazione e al calo numerico dei preti diocesani, cerca di rinnovare la presenza territoriale della comunità ecclesiale in modo più conforme alle esigenze del nostro tempo.

Perché si è assunto il termine integrazione? Perché esso ci permette di accostarci alla realtà non solo riconoscendo cosa manca, ma partendo da ciò che c’è e valorizzando al massimo quello che la realtà oggi ci presenta. Ogni prospettiva di crescita andrà pensata a partire da ciò che è presente e integrandolo in modo il più possibile armonico con ciò che ancora è carente.

E’ bello pensare anche a livello educativo ad una educazione integrativa e non omologante. Riconoscere ciò che c’è, partire dalle risorse della persona, dai doni di cui è portatore, per farli giungere alla pienezza dell’esperienza di vita. Ognuno di noi allora si può porre in un bel percorso di formazione permanente perché nessuno è così ricco e completo da non aver bisogno di integrazioni e nessuno è così povero da non aver un punto di partenza significativo da cui iniziare.

Integrare è verbo davvero prezioso

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