Fede e cultura: un discernimento continuo

In questi giorni due articoli molto diversi (Andrea Grillo e Agostino Giovagnoli) hanno attirato la mia attenzione riguardo ad un tema molto importante che, nonostante rappresenti la questione di fondo in molte discussioni e dibattiti intra ed extra ecclesiali, risulta davvero poco approfondito nei nostri percorsi formativi. Il tema riguarda il rapporto tra la fede e la cultura e come la cultura – non raramente – contribuisca nell’approfondimento della fede.

Il principio dell’inculturazione della fede rappresenta uno dei frutti più preziosi del Concilio Vaticano II e non riguarda solamente la liturgia, con l’esigenza ormai riconosciuta di adattare i riti della fede alla cultura dei vari popoli del mondo, ma anche il nostro modo di dire e comprendere la fede, a partire dall’interpretazione della Scrittura chiamata a considerare “la maniera umana” in cui quei testi sono stati scritti, per ricercare “cosa a Dio è piaciuto manifestare con le loro parole” (Dei verbum 12).

Dati questi principi, che appartengono al magistero della Chiesa, permane tra molti cristiani la tentazione di doversi difendere dalla cultura – intesa non in modo astratto o accademico, ma come vissuto condiviso – quasi che essa voglia minacciare permanentemente il dato della fede. D’altra parte permane anche in molti “laici” il pregiudizio che i cristiani, nello sviluppo del loro pensiero, siano impermeabili al progresso della cultura perché aggrappati a verità assolute ritenute ormai irragionevoli di fronte alle sfide della (post-) modernità.

In realtà il principio dell’inculturazione della fede, che ha il suo fondamento teologico nella verità dell’incarnazione del Verbo di Dio, non rappresenta affatto un limite alla possibilità (solo teorica) di potere “dire” la fede in modo “perfetto”, quasi che si debba soggiacere alla necessità di un adattamento per l’esigenza di farsi comprendere (come se dovessi spiegare delle cose importanti ad un bambino), ma al contrario proprio questo principio aiuta i credenti ad incarnare la loro fede approfondendola, conoscendo sempre meglio il volto di quel Dio in cui hanno creduto, un Dio che ha voluto legarsi indissolubilmente con la realtà umana lasciandosi rivelare da essa. Basta pensare all’uso che Gesù fa delle parabole nella sua predicazione; le parabole non sono affatto delle storielle che Gesù utilizza per spiegare i misteri del Regno di Dio, ma degli elementi appartenenti alla natura o al modo di vivere delle persone che rivelano aspetti importanti su Dio, sulla sua benevolenza e sulla sua misericordia verso gli uomini e sul suo desiderio di renderli partecipi della sua stessa vita.

Noi viviamo in una storia, in un tempo e in uno spazio con caratteristiche proprie di questo nostro tempo e del luogo in cui la provvidenza ci ha portato a vivere. Con gli uomini e le donne con cui viviamo condividiamo gioie e speranze, dolori e angosce, successi e sconfitte. Mentre ci è abbastanza noto il contributo dato dai cristiani a partire dalla loro testimonianza evangelica, non sempre riconosciamo che moltissimi dei progressi della cultura, così come quelli della scienza, aiutano noi cristiani a comprendere sempre meglio chi sia Dio e cosa lui abbia voluto insegnarci per aiutarci a vivere in pienezza la nostra umanità in questo tempo.
Pensiamo, per esempio, all’atteggiamento di sospetto che la Chiesa aveva all’inizio del XX secolo per le nascenti strutture democratiche degli stati e come invece oggi essa sia in prima linea nel riconoscere che questa forma di governo dei popoli, vissuta nel rispetto della giustizia, rappresenti la migliore garanzia per il progresso della fraternità universale in Cristo, elemento che riguarda la missione della Chiesa (Lumen gentium 1).
Pensiamo ancora come l’affermazione della dignità dell’uomo in ogni condizione di vita e ancora più specificamente della dignità della donna, del valore della pace e della inaccettabilità della guerra, dell’importanza della giustizia sociale e dell’ingiustizia della pena di morte, siano elementi che la Chiesa ha riscoperto proprio grazie ad un progresso culturale ampio che l’ha aiutata ad approfondire ciò che già apparteneva al Vangelo, ma che – per gravi condizionamenti culturali – non era capace di vedere. Sono solo alcuni esempi.

Certo, non bisogna essere ingenui! Nella cultura che condividiamo c’è anche tanto di inconciliabile con il Vangelo, come ci sono molti elementi che ancora chiedono di essere illuminati con pazienza, senza superficialità, proprio perché hanno a che fare con questioni molto delicate. Ma ciò non toglie che il dialogo possa essere franco e rispettoso e che possa essere considerato fruttuoso non tanto per convincere altri della ragionevolezza della fede, quanto piuttosto per favorire l’approfondimento della fede stessa proprio mentre essa è sollecitata da questioni sempre nuove.

In questo percorso di dialogo, ci può molto aiutare la pratica del discernimento comunitario, una pratica antica, ma che per molto tempo non è stata utilizzata perché ritenuta non necessaria da una Chiesa abituata a vivere in una società cristiana. La secolarizzazione, la globalizzazione e il cambiamento d’epoca ci impongono di riappropriarci in modo diffuso di questa antichissima arte, per scoprire come il Signore si rivela nelle storie delle persone che incontriamo, storie che diventano tessere di un mosaico che sarà completo solo alla fine dei tempi, quando il Signore compirà il suo Regno. Questa fedeltà alla carne dell’uomo, al suo vissuto concretissimo, la nostra rinnovata capacità di farci prossimi alle persone che incontriamo secondo lo stile del Vangelo; il nostro impegno nella testimonianza della fede e nel rendere ragione della speranza che è in noi ci aiuterà a saperci fare provocare da ciò che lo Spirito Santo – il solo che ci conduce a tutta intera la verità – ci vorrà insegnare riguardo a Dio e alla sua volontà di salvare tutti gli uomini, anche quelli del nostro tempo che lui guarda con amore di Padre e che ci chiede di riconoscere come fratelli e sorelle.
Nel frattempo camminiamo nella storia fiduciosi della promessa del Signore di essere con noi tutti i giorni fino alla fine del mondo.

Mentre scrivevo queste righe mi è tornato alla mente più volte un testo del Vangelo che spesso ci troviamo a leggere con difficoltà, perché sembra mettere in crisi la “perfezione di Gesù”. Si tratta dell’incontro con una donna definita siro-fenicia o più genericamente cananea (Mt 15,21-28 o Mc 7,24-30), la quale chiede a Gesù di liberare sua figlia, che era posseduta da un demonio. Nella sua risposta alla donna Gesù vuole marcare una distinzione tradizionale tra ebrei e pagani, distinzione che sarebbe stata giustificata da qualsiasi rabbino; ma quella donna insiste e, nelle sue parole, Gesù riconosce una verità più ampia sulla paternità di Dio che, probabilmente, lui stesso non aveva tenuto presente.
Gesù riconosce la fede di quella donna: cioè riconosce che parla di Dio in modo autentico, nonostante sia formalmente estranea al popolo d’Israele, e asseconda la sua richiesta proprio perché riconosce il suo diritto a considerare Dio come Padre e a considerarsi come parte di quella casa in cui c’è posto per tutti anche se in ruoli diversi. Possiamo dire che quella donna abbia aiutato Gesù a conoscere un po’ meglio chi sia Dio? La storia di quella donna, incontrata nella concretezza della sua richiesta di aiuto e ascoltata nella sua professione di fede, ha regalato a Gesù, e tramite lui a tutti noi, una piccola tessera che è diventata parte di quel grande mosaico che è il Vangelo.

Pubblicato da tecnodon

Prete cattolico. Formatore in seminario ed Assistente AGESCI

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