La preside e la suora

Anche oggi nella mia riflessione mi è capitato di accostare due notizie che, apparentemente, sono slegate tra loro, ma che, a ben vedere, ci raccontano entrambe di una crisi importante che coinvolge persone molto stimate e prese ad esempio.
A Palermo la preside di una scuola intitolata a Giovanni Falcone, premiata dal Presidente della Repubblica per il suo impegno educativo a contrasto della criminalità organizzata, è stata arrestata per aver rubato cibo e apparecchiature elettroniche destinate alla scuola (sembra con la complicità di una dozzina di persone, tra cui il vice preside della stessa scuola).
Nel bresciano una suora molto nota, fondatrice e responsabile di una comunità terapeutica per tossicodipendenti, è stata accusata durante una trasmissione televisiva di usare metodi coercitivi e lesivi della dignità delle persone e, per questo motivo, è finita sotto inchiesta.

Le due vicende sono molto diverse tra loro, ma hanno in comune il fatto che entrambe queste persone avevano ricevuto dei riconoscimenti pubblici per il loro operato e, per questo motivo, sono divenute punti di riferimento per le comunità locali (civili ed ecclesiali).
Accade spesso che queste persone divengano segni di speranza per una comunità: ci si aspetta non solo che continuino ad essere un riferimento esemplare, ma, come conseguenza del riconoscimento ricevuto, si “pretende” la loro impeccabilità e di fronte ai loro errori (siano “solo” peccati o addirittura reati) ci si scandalizza, condividendo un doloroso senso di tradimento.
Questo sentimento nasce dalla delusione profonda rispetto al bisogno che tutti abbiamo di avere davanti a noi degli “eroi”, persone concrete che, in ogni tempo della storia, ci testimonino che è possibile essere uomini e donne pienamente, “al top” delle possibilità che ci sono date; che c’è qualcuno tra noi che ci rappresenta al meglio di ciò che noi potremmo essere, ma che in quanto persone comuni, consapevoli dei nostri limiti, non riusciamo ad essere.
Quando individuiamo “un eroe” pretendiamo che sia per sempre una persona perfetta e dimentichiamo la sua naturale fragilità, rimuoviamo il fatto che anche quella persona, come tutti noi, è esposta all’incoerenza, all’errore, alla tentazione di pensarsi al di sopra della legge, a volte – paradossalmente – proprio per il fatto che gli/le è stato attribuito un riconoscimento che lo/la eleva al di sopra degli altri (“lei non sa chi sono io!“).
Nella Chiesa questa dinamica è conosciuta e si chiama “clericalismo”: più volte il Papa ne ha denunciato la perversione e la natura antievangelica. Non so che nome le si vuole attribuire nella società civile, ma i danni che procura sono i medesimi.

Qual è la cura? Come ne usciamo?
Rinunciamo a pensare di poter avere esempi positivi per evitare le delusioni? Ci immergiamo in un cinismo diffuso – magari definito dai più intelligenti “sano realismo” – per evitare figuracce?

Come accade molto spesso a noi credenti, una pista ce la fornisce la Bibbia quando ci racconta di Pietro: egli è per definizione l’anti-eroe! Ha ricevuto riconoscimenti importanti da Gesù stesso e un ruolo di riferimento dentro la comunità cristiana, eppure la Scrittura non ci nasconde i suoi errori, le sue fragilità, i suoi tradimenti; Paolo stesso lo critica pubblicamente in alcune occasioni, pur riconoscendone il ruolo.
Come si concilia questa apparente contraddizione?
Per Pietro, una volta riconosciuto il suo rinnegamento, rispetto al ruolo di presidenza chiamato a vivere nella comunità ha sempre prevalso l’essere parte della comunità dei discepoli che continuamente devono interrogarsi e convertirsi rispetto al cammino che il Signore mostra loro come necessario. Ci sono dei passaggi raccontati dagli Atti degli Apostoli in cui si vede chiaramente il percorso di conversione di Pietro che, nonostante il suo ruolo, si fida di quanto il Signore manifesta alla comunità intera (la conversione del centurione Cornelio o il Concilio di Gerusalemme) anche quando non corrisponde al suo pensiero o alla sua sensibilità.

Ciò che a volte manca nella nostra società, quando giustamente riconosciamo i meriti e l’esemplarità di una persona, è di tenerla dentro un “noi comunitario” che si assume la responsabilità della sua custodia (in senso affettivo), correzione e crescita. L’esperienza ci insegna che le persone, anche quelle bravissime, non possono essere lasciate sole, ma devono continuare a camminare dentro una comunità (civile o ecclesiale che sia) per continuare a crescere in quella esemplarità che hanno testimoniato.

Ovviamente non so come queste due storie si evolveranno. Coloro a cui spetta questo compito faranno indagini approfondite e valuteranno secondo giustizia.
Di due cose sono però certo: il bene compiuto non viene mai cancellato a causa dell’incoerenza successiva di colui/colei che lo aveva agito; è necessario rafforzare la dimensione del “noi comunitario” (senza facili deleghe) se vogliamo che quel bene possa essere custodito e possa crescere, per diventare effettivamente patrimonio comune, segno di speranza e di umanità piena.

Pubblicato da tecnodon

Prete cattolico. Formatore in seminario ed Assistente AGESCI

Una opinione su "La preside e la suora"

  1. Io trovo che la quasi totale scomparsa del sacramento della Confessione induca a sentirsi un pò sempre dei giudici infallibili: ” So io ciò che è bene e ciò che è male ; semmai mi confesso con Dio”.- Molta colpa l’abbiamo anche noi preti: quando, per esempio, ci prepariamo a solenni celebrazioni in duomo non ci passa nemmeno per la mente che qualcuno si metta nelle cappelle laterali disponibile a confessare. Et coetera.- Se la Confessione viene sempre messa in secondo piano, un giovane potrà dire: ” Cosa divento prete a fare se devo dare solo consigli psicologici? Divento psicologo e basta!” – Se sbaglio mi corrigirete!- D.Romano

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