
Il popolo che camminava nelle tenebre ha visto una grande luce;
su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse.
Hai moltiplicato la gioia, hai aumentato la letizia.
Gioiscono davanti a te come si gioisce quando si miete
e come si esulta quando si divide la preda. (Is 9,1-2)
Con queste parole di Isaia si aprirà la liturgia della Parola nella notte di Natale: un grande invito alla gioia! Eppure sento che non è facile per me accogliere questo invito; non è facile per me gioire.
Conosco il valore del Natale sia dal punto di vista spirituale che teologico; ho riconosciuto tante volte il suo valore di provocazione rispetto al nostro vivere indifferente … ma come aprirsi alla gioia?
Bastano i riti famigliari, il ritrovarsi insieme spensieratamente?
Basta l’elaborazione e l’espressione di qualche pensiero buono e di qualche proposito solidale? E’ sufficiente la retorica sulla “magia” di questo tempo?
A me non basta! Non riesce a farmi sperimentare quella gioia che hanno provato i pastori o i magi andando a Betlemme; non riesce a farmi vivere quella letizia di cui parla Isaia annunciando la venuta del Signore.
Ci ho pensato a lungo in questi ultimi giorni di Avvento e ho compreso che se voglio gioire per la luce che il Signore porta nel mondo con la sua nascita, devo riconoscere le tenebre in cui sto abitando. Il mio problema (e forse di tanti altri) è che vivo nella penombra, in una situazione che mi porta ad illudermi che si veda a sufficienza senza bisogno di ulteriore luce. Se invece fossi consapevole che senza il Signore sto camminando nelle tenebre, la sua venuta luminosa mi farebbe gioire, così come afferma e promette Isaia.
C’è un canto di Adriana Mascagni (Il mio volto, 1971) che in questi ultimi giorni ha accompagnato la mia riflessione; le parole di questo canto narrano la consapevolezza del vuoto che l’uomo sperimenta quando si trova solo con sé stesso. E’ l’esperienza necessaria del buio, come premessa alla gioia per la luce che sorge nell’incontro con Colui che ci ricorda e ci annuncia nuovamente che siamo amati e che è venuto al mondo perché noi non restiamo soli.
Mio Dio, mi guardo ed ecco scopro che non ho volto;
guardo il mio fondo e vedo il buio senza fine.
Solo quando mi accorgo che tu sei, come un’eco risento la mia voce
e rinasco come il tempo dal ricordo.
Perché tremi mio cuor? Tu non sei solo, tu non sei solo;
amar non sai e sei amato, e sei amato;
farti non sai e pur sei fatto e pur sei fatto….
(Per chi lo desidera è possibile ascoltarlo in una versione cantata da Guya Valmaggi cliccando sul link Il mio volto).
Solo chi vive realmente l’esperienza di questa tenebra e non si accontenta del grigiore della penombra può fare suo il grido ecclesiale che è risuonato per tutto il tempo dell’Avvento: “Maranathà! Vieni Signore Gesù!”.
Vieni, perché desideriamo quella gioia che tu prometti; vieni perché siamo nelle tenebre e nell’ombra della morte causate dalla violenza, dall’ingiustizia, dalla malattia, dalla nostra fragilità; vieni Emmanuele e facci sentire che siamo amati, che non siamo soli, che non siamo qui per caso, ma siamo stati fatti da te e tu continui a stare con noi.
Questa invocazione mi sembra ben espressa da una canzone della tradizione americana della Christian music proposta da questa band famigliare (The Petersens) che condivido come un piccolo dono e una luce di Natale: O Come, O Come Emmanuel .
Il Signore rischiari le nostre tenebre, ci liberi dal grigiore della nostra vita e ci conceda di gioire con semplicità per la luce che la sua nascita e la sua presenza porta nel mondo.
Sarà che sono vecchio ma mi sono commosso al sentire il bellissimo canto americano con le parole tradotte in italiano: finalmente un canto di Natale che parla di Gesù e non delle stupidissime renne che vengono dal polo Nord. E’ ora che tiriamo fuori gli artigli e diciamo duramente al mondo che il Natale è la festa della nascita di Gesù e non della bontà o della beneficenza. Grazie. Auguri a te ed ai tuoi ragazzi perchè siano orgogliosi di prepararsi a dare l’unico trasformatore del mondo: Gesù.
Non credo che servano gli artigli né essere duri. Come dice san Pietro nella sua prima lettera:
“Adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi. Tuttavia questo sia fatto con dolcezza e rispetto, con una retta coscienza, perché, nel momento stesso in cui si parla male di voi, rimangano svergognati quelli che malignano sulla vostra buona condotta in Cristo”.
Grazie don Romano