
La guerra in Ucraina continua con le tragedie che provoca ogni giorno.
Viviamo il rischio di abituarci nel fare quotidianamente i conti con le morti, le violenze, gli abusi di ogni tipo; il nostro animo non riesce a stare in uno stato permanente di dolore e di sgomento di fronte all’orrore che la guerra provoca; per questo si crea come un callo che ci difende, ci scherma, ci impedisce di venire travolti dalla sofferenza: è un meccanismo di difesa naturale. Di conseguenza ci troviamo a derubricare la portata delle notizie che riceviamo e le releghiamo in un sottofondo che, sebbene tristemente, caratterizza la nostra vita, a cui non facciamo più caso, come chi abita vicino ad una ferrovia non registra più il rumore dei treni che transitano.
A fronte di questa situazione, che rimane gravissima, si stanno mobilitando diverse realtà della “società civile” le quali, volendo sollecitare i governi ad un approccio diverso sulla questione del conflitto russo-ucraino, senza rimanere prigionieri del sistema binario rappresentato dalle sanzioni economiche e dal sostegno alla resistenza ucraina mediante l’invio sempre più massiccio di armi, scenderanno in piazza a manifestare il desiderio di pace sia nel prossimo weekend che nella giornata del 5 novembre.
Rispetto a queste manifestazioni, sinceramente, nutro alcuni dubbi.
Da una parte – come affermano molti sostenitori delle manifestazioni – ritengo doveroso riportare all’attenzione pubblica la prospettiva della pace; dall’altro ritengo ingenuo e anche un po’ “borghese” accontentarsi di andare in piazza a protestare contro la guerra. Chiedendo scusa anticipatamente per l’evidente rischio di banalizzare, credo che non sia più il tempo per urlare “cattivo Putin” e “poverini gli Ucraini” o, peggio, “fate i bravi, non litigate più e fate la pace“: questo modo di manifestare (chiedo ancora scusa per la parodia) sarebbe inutile e offensivo per chi si trova a soffrire quotidianamente per le conseguenze della guerra.
Ritengo, invece, che questo sia il momento per compiere un passo in avanti, per fare delle proposte che possano effettivamente avviare un processo di pace che richiede ascolto effettivo tra le parti e disponibilità a mediare, con una prospettiva a breve e medio termine.
Ho letto con interesse su “Avvenire” sia l’intervento del prof. Stefano Zamagni che l’appello di undici intellettuali (anche se con un po’ di disappunto nel vedere solo una donna tra i firmatari), i quali propongono dei passi concreti per avviare un negoziato che conduca effettivamente alla pace, intesa – come spiega bene Zamagni nel suo testo – come pace positiva e non semplicemente come cessazione del conflitto (Il fine del negoziato non può limitarsi a conseguire una pace negativa nel senso di Johan Galtung che, già nel 1975, introdusse la distinzione, divenuta poi celebre, tra pace negativa e pace positiva. (…). Mentre la prima fa riferimento all’assenza di violenza diretta (‘al cessate il fuoco’, come si usa dire), la seconda fissa le condizioni che servono per aggredire le cause della guerra).
L’altra attenzione che dobbiamo avere, per non cedere ad una logica “borghese” nel manifestare per la pace, rimane quella già richiamata nei mesi passati e che può essere espressa in queste domande: cosa sono disponibile a cambiare nella mia vita per contribuire alla pace? In che cosa si manifesta il mio impegno per la pace riguardo alle mie priorità, al mio modo di usare il tempo, il denaro, le cose… come incide nella mia vita il mio impegno per la pace? Quali proposte concrete per noi in queste manifestazioni?
Penso ai tanti che si sono impegnati nell’accoglienza dei profughi: la loro vita è cambiata, si sono fatti carico di una presenza per testimoniare il volto di un’umanità che non è ostile; penso ai molti che sono andati in Ucraina per condividere il dolore della guerra, per stringere mani, per testimoniare la prossimità a chi soffre le drammatiche conseguenze della guerra; penso ai tanti che si sono impegnati fattivamente nella raccolta viveri e di materiale necessario … penso a chi quotidianamente prega per la pace, che sta di fronte al Signore con fiducia per condividere con Dio il sogno della pace e della fraternità, della giustizia (come ci ricordava il vangelo della messa di ieri) …
Ma io e tutti quelli che sceglieranno di andare in piazza a manifestare il loro desiderio di pace, noi, siamo disponibili a farci toccare personalmente dalla tragedia della guerra, a “riconoscere l’abisso del male nel cuore della guerra” (FT 261)?
Mi piacerebbe che, accanto agli appelli e agli inviti per i governi, chi scende in piazza portasse l’adesione personale ad una proposta concreta che incide sulla sua vita e che contribuisce al processo di pace.
Senza questa disponibilità a mettersi in gioco personalmente, la manifestazione per la pace non solo sarà inefficace rispetto agli obiettivi che si pone, ma sarà anche considerata ingenua e superficiale da coloro che sono i destinatari dei nostri appelli.
Certamente deve cessare il conflitto, devono tacere le armi, ma occorre indicare la strada per costruire la pace, dimostrando la disponibilità a percorrerla anche noi insieme a coloro che oggi si considerano nemici.