Mentre il dibattito pubblico di questi giorni estivi si consuma intorno ad inutili discussioni sul “Green pass“, mi sconvolgono le notizie che provengono dall’Afghanistan, paese tormentato da più di quaranta anni di guerra e teatro di imponenti operazioni internazionali negli ultimi venti anni.
Come è noto, in questa primavera gli USA hanno ritirato le loro forze sul campo (presenti dalla fine del 2001, dopo l’attentato a di New York) e con loro tutti gli altri contingenti presenti, riconsegnando la gestione del territorio e dell’ordine pubblico all’esercito e alla polizia afgana.
Nell’arco di poche settimane, ci riportano i giornali, le forze armate dei gruppi talebani stanno prendendo il possesso del territorio afgano mettendo in atto una brutalità sconcertante, di fronte alla quale le popolazioni civili fuggono e le forze armate capitolano. Questa brutalità mi interroga molto e mi propone delle riflessioni che trascendono le questioni di cronaca e le valutazioni politiche che vedo riportate sui giornali.
A partire da ciò che abbiamo visto durante la guerra dei Balcani o l’eccidio del Rwanda (solo per fare due esempi molto celebri), penso che la brutalità non sia una normale espressione della violenza; anche nelle guerre (teatri di violenza giustificata) essa è l’espressione di una rabbia repressa – o alimentata – che viene indirizzata su persone alle quali viene negata ogni dignità e che vengono viste ostacolo da abbattere perché causa di una ingiustizia (vera o percepita come tale). Con grande semplicità (semplificazione?) si attribuisce questa rabbia dei talebani, e la conseguente brutalità, ad un processo di indottrinamento ideologico rispetto al quale – nel pensiero comune – si ritiene che non ci sia nulla da poter fare.
Ma è proprio così? Chi ha ascoltato seriamente questa rabbia? Chi, in questi venti anni di “occupazione” militare occidentale, ha messo in atto dei progetti di dialogo con i talebani per cercare di comprendere quale fosse il loro “desiderio” o rispetto a cosa si sentivano ingiustamente trattati?
Abbiamo finanziato per venti anni progetti di presenza dell’esercito per tutelare la popolazione, per formare le forze armate e i corpi di polizia, per portare avanti alcuni progetti umanitari a favore della popolazione (scuole, ospedali, ecc.). Ma accanto alla presenza di uomini e donne armati (necessari in quel contesto così conflittuale), sono stati inviati mediatori di pace che favorissero la ricostruzione di un tessuto sociale e politico in vista di un futuro basato sul dialogo e sul confronto? Io, sinceramente, non lo so, ma i fatti di questi giorni sembrano dire che, su questo piano, le varie missioni internazionali abbiano fallito.
Mi sembra di capire che, per lungo tempo, quegli uomini che definiamo “talebani” (da talibe = discepolo) siano stati relegati ad una vita di clandestinità o rinchiusi in riserve nelle quali si è alimentata una rabbia e una violenza che oggi si manifesta in una brutalità sconcertante. Alla loro violenza si è cercato di opporre una violenza esponenzialmente più grande, mostrando i muscoli delle varie super potenze occidentali, illudendosi che avrebbero imparato la lezione di chi sia il più forte, rinunciando alle loro pretese velleitarie.
Di quegli uomini, in questi anni, si è parlato per lo più con disprezzo, identificandoli con un’ideologia religiosa radicale rinnegata anche dall’Islam, negando anche a loro la dignità di persone. Non voglio affatto negare che essi siano stati responsabili di cose tremende e ingiustificabili, che abbiano commesso crimini terribili e osceni verso persone innocenti … ma la domanda rimane: la forza, la violenza e l’oppressione erano l’unica risposta che potevamo dare rispetto alla loro brutalità?
Accade sempre, anche nel nostro mondo: quando una persona è considerata da tutti “una bestia”, per essere guardata e ascoltata dagli altri, per essere riconosciuta nel suo esistere al mondo, non le resterà che comportarsi come tale, a meno che non ci sia qualcuno che comincia a guardarla ed ascoltarla in modo diverso.
Due piste di riflessione a latere sulla brutalità.
Walter Reder, comandante SS e responsabile di alcune delle stragi di Monte Sole e Marzabotto (settembre – ottobre 1944)

In questi giorni, per prepararmi alla prossima beatificazione di don Giovanni Fornasini (Bologna, 26 settembre 2021), sto leggendo il bellissimo libro di don Angelo Baldassarri (Risalire a Monte Sole. Memorie e prospettive ecclesiali, ed. Zikkaron) che, raccontando come la Chiesa di Bologna ha ricuperato e riletto nel tempo i tragici fatti dell’eccidio di Monte Sole e Marzabotto, ci presenta la relazione costruita con Walter Reder, comandante delle SS e responsabile di molti omicidi commessi con brutalità nel settembre-ottobre 1944, tra i quali anche quello di don Giovanni Fornasini. Walter Reder, durante il tempo del carcere, ha vissuto un percorso di conversione e di riconciliazione che gli ha consentito di ottenere il perdono di alcuni tra i famigliari delle vittime delle stragi. Tale percorso – probabilmente – non è stato un processo spontaneo, ma il frutto misterioso di un lavoro di ascolto e accompagnamento che qualcuno ha deciso di compiere verso una persona che si era comportata in modo brutale nei confronti di persone innocenti. La Chiesa di Bologna, fedele alla parola del Vangelo, ha lottato, anche tra molti contrasti interni ed esterni, perché tale processo di perdono e riconciliazione giungesse al suo compimento.
Il lupo di Gubbio e san Francesco
Mentre ragionavo su queste cose, mi è tornato alla mente il famosissimo racconto di san Francesco e del “Lupo di Gubbio“.
Tutte le strategie della città, volte per lo più a cercare di uccidere il lupo per neutralizzare la minaccia che quell’animale feroce rappresentava, erano risultate inutili; Francesco si reca dal lupo e – prima di tutto – lo chiama “frate lupo”, lo richiama per le violenze operate, ma riconosce anche la sua fame e il suo bisogno di nutrirsi; in nome di Cristo stabilisce una patto tra il lupo e gli abitanti di Gubbio perché cessino le violenze e al lupo venga riconosciuto il suo diritto.
Questa storia – riportata dai “Fioretti di san Francesco” – possiede degli elementi molto istruttivi per far fronte alla brutalità; Francesco afferma che essa non è naturale, non appartiene alla natura del lupo, ma è la reazione ad una rabbia profonda generata da un senso di ingiustizia.
Se non si ascolta la rabbia e non si sana il senso di ingiustizia sarà molto complicato far fronte a quella brutalità, anche rispondendo con una violenza giustificata.
Non lasciarti vincere dal male, ma vinci il male con il bene. (Rom 12,21)
In pedagogia si studia subito, appena aperti i libri: ” Se Pierino non sa la matematica tu senti l’istinto di dirgli che è un cretino. Forse è vero ma ti devi anche domandare: cosa ho fatto e sto facendo IO perchè Pierino comprenda ed ami la matematica?” – In pratica: se in Afghanistan sono così crudeli in certa parte è anche perchè il modo di fare dei missionari ( = essere dentro la loro vita, essere come loro) non c’è stato o è stato assai scarso.