In questi ultimi giorni che precedono il Natale, le letture bibliche ci mettono davanti a storie dolorose di donne sterili. Il dramma della sterilità è molto presente nella Scrittura e spesso colpisce le madri di coloro che saranno chiamati ad essere grandi guide di Israele.
In particolare mi ha colpito ed ho letto insieme la storia di Rachele, moglie prediletta del patriarca Giacobbe, che diventerà la madre di Giuseppe e di Beniamino, la storia di Anna, che diventerà la madre del profeta Samuele e la storia di Elisabetta, che diventerà la madre di Giovanni Battista.
In realtà la Scrittura è molto sobria nel parlarci di queste donne e del loro vissuto, ma, in filigrana, si coglie bene il dramma che vivevano e la gioia della loro maternità. Pur essendo storie diverse, accadute in epoche molto lontane tra loro, mi sembra di poter riconoscere quattro tratti che le accomunano.
In primo luogo il grande dolore. La sterilità è vissuta da tutte queste donne come qualcosa di inaccettabile. Nelle storie di Rachele ed Anna questo dolore viene esternato in modo molto forte, quasi imbarazzante anche per i loro mariti (Cfr. Gen 30,2 e 1Sam 1,7-8). Nel caso di Elisabetta questo dolore è vissuto come una vergogna (Cfr. Lc 1,25).
Il secondo tratto è la fede di queste donne (e dei loro mariti), che non si rassegnano alla loro sterilità, ma continuano a riporre fiducia in Dio per ottenere il dono della maternità. Soprattutto Anna esprime questa fiducia nel Signore in una preghiera accorata e accompagnata dalle lacrime fluenti. Il dolore lancinante causato dalla sterilità non si chiude nella depressione, ma rimane aperto alla speranza nel Dio che dona la vita.
Il terzo tratto è la gioia e la gratitudine per la maternità ricevuta in dono. Tutte tre queste donne sono consapevoli che l’autore della loro maternità è il Signore, che è lui che le ha rese feconde e capaci di generare vita; a Dio sono grate per il dono dei loro figli.
Il quarto e ultimo tratto che accomuna queste storie di sterilità guarita è la libertà di donare al Signore i figli ricevuti in dono da Dio. Soprattutto Anna ed Elisabetta, così come la madre di Sansone (altra donna sterile sanata), sono consapevoli che il Signore ha reso fecondo il loro grembo perché i loro figli saranno destinati a compiere una missione.
Come si può osservare da questi racconti, la condizione di sterilità, nella storia di queste donne (e dei loro rispettivi mariti), con tutto il suo carico di dolore e umiliazione, diviene la premessa provvidenziale che consente a Dio rivelarsi come colui che può capovolgere la situazione, prima di tutto per queste coppie di sposi e, tramite la loro fede nella potenza di Dio, riconosciuto capace di portare vita anche lì dove nessuno se la aspetterebbe (“nulla è impossibile a Dio” – Lc 1,37), anche a tutto il popolo.
C’è un percorso che siamo chiamati a vivere, un percorso che ci chiede di condividere il dolore e l’umiliazione per diventare partecipi della potenza di vita che il Signore è capace di realizzare per il mondo.
Anche le nostre chiese stanno vivendo un tempo di sterilità e di invecchiamento.
Ci sentiamo tutti come Zaccaria ed Elisabetta: siamo persone e comunità devote, giuste e zelanti, ma umiliate dalla sterilità a più livelli, in particolare sul piano vocazionale.
Mi chiedo se le storie di queste coppie non rappresentino un percorso che ci viene indicato.
Se così fosse, forse non siamo ancora arrivati a vivere il dolore per la nostra sterilità; non abbiamo sentito ancora la vergogna e l’umiliazione che tale sterilità rappresenta per Elisabetta e per Rachele; non ci siamo effusi in lacrime come Anna. La preoccupazione diffusa che serpeggia nella nostre chiese, non ha ancora toccato e condiviso questa esperienza di dolore profondo che diventa un grido accorato rivolto verso Dio.
Per questo motivo, appunto, la nostra preghiera è distratta e pigra. Invochiamo da Dio il dono di vocazioni per le nostre chiese, ma non in modo convinto, non come se fosse qualcosa da cui dipende la nostra vita. Non avvertiamo ancora come decisiva questa questione o la releghiamo a questioni di ordine organizzativo-gestionali, perché la nostra sterilità non ci scandalizza o perché ci siamo rassegnati.
Contestualmente non sempre siamo capaci di esprimere la nostra gratitudine per coloro (quei pochi) che il Signore ci dona, non sempre ci facciamo coinvolgere; non sempre sentiamo che la cosa ci riguardi. Abbiamo altro da fare, abbiamo altri impegni, non possiamo concederci di lasciarci andare alla gioia per un dono che il Signore concede alla nostra chiesa (o alle nostre chiese).
Mi colpisce quello che afferma Rachele alla nascita di Giuseppe, la quale, colma di gioia, si arroga il diritto, che solitamente spettava ai padri, di attribuire un nome al figlio tanto atteso: «lo chiamò Giuseppe, dicendo: “Il Signore mi aggiunga un altro figlio!”» (Gen 30,24). Perché la gratitudine diventa, come nel Magnificat, occasione per chiedere ancora di più!
Infine c’è l’ultimo passaggio che è quello della libertà. Lo diciamo sempre che i figli non sono i nostri e non sono per noi, ma questa sottile tentazione sempre ci seduce. Dopo tanta attesa, dopo tanto dolore sofferto, dopo tanta preghiera … ci viene chiesto di pensare non a noi stessi, ma al mondo. Dio fa così: ci ricolma di beni perché noi abbiamo la possibilità di farne dono agli altri. Anna ed Elisabetta ne erano consapevoli ed hanno accolto con fiducia questo progetto di Dio favorendolo e sostenendolo.
In questo Natale, mentre ci prepariamo a rinnovare la gioia per la nascita del Salvatore, non saltiamo troppo in fretta i passaggi che il Vangelo e la liturgia ci aiutano a vivere, perché essi hanno qualcosa di importante da dirci anche per quanto riguarda la vita delle nostre comunità ecclesiali.
Il Signore ci aiuti a vivere e condividere il dramma di questa sterilità come la premessa di quel capovolgimento che vuole realizzare per noi e per il mondo.