Ormai sempre più spesso nelle nostre riunioni ecclesiali, qualsiasi sia l’argomento su cui ci confrontiamo, ci troviamo sempre davanti alla medesima conclusione: viviamo una emergenza di evangelizzazione.
Le nostre comunità, a tutti i livelli, sono poco evangelizzate; la “fede” si manifesta per lo più come la conservazione di tradizioni tramandate, che fungono da cornice ad una vita che – normalmente – non è illuminata dal Vangelo. L’appartenenza ecclesiale per molti è espressa più come adesione a dei valori ritenuti importanti, che come cammino comunitario di sequela del Signore e di conversione personale. All’interno della comunità cristiana, crescono le reazioni indispettite e violente agli appelli e ai richiami che la Chiesa, tramite il Papa e i vescovi, rivolge ai suoi membri, di fronte alle provocazioni evangeliche che emergono nella realtà in cui viviamo (guerra, ecologia, immigrazione, aborto, eutanasia, giustizia sociale …).
Questa consapevolezza è abbastanza diffusa e condivisa e non rappresenta una novità: già papa Giovanni Paolo II, negli anni ’80 del secolo scorso, aveva lanciato un appello alla nuova evangelizzazione… E allora perché non si cambia registro? Perché non si intraprende con coraggio la via dell’evangelizzazione?
Perché assecondiamo, e non correggiamo, questo modo di fare e di pensare che riconosciamo come improprio e incapace di fare crescere nello spirito del Vangelo la nostra gente e le nostre comunità?
C’è una strana equazione che serpeggia nella nostra mente ecclesiale, un pensiero non esplicitato, ma che è assunto come criterio di azione o – meglio – di non azione e ci blocca.
L’equazione mette in relazione l’impegno per l’evangelizzazione (con tutto ciò che esso comporta), con la possibilità reale che tale prospettiva porti all’esclusione di molti (auto-esclusione in realtà).
Secondo questa equazione, se alziamo troppo il tiro, se aumentiamo le richieste, se rendiamo più impegnativi i percorsi, rischiamo di perdere molta gente, rischiamo di escludere molti battezzati e persone che, in modo diverso, sentono di appartenere alla Chiesa.
Le motivazioni di questo atteggiamento non sono stupide ne’ banali e meritano di essere considerate con rispetto. In effetti ci sono alcuni ambiti in cui ancora la partecipazione misura percentuali relativamente alte: la richiesta dei battesimi, la richiesta dell’iniziazione cristiana per i bambini, la richiesta dei matrimoni … nonostante il calo evidente, sono ancora molte richieste che vengono dalla gente, che esprime, in questi percorsi tradizionali, la sua adesione di fede. Tale richiesta però, occorre ammetterlo, non produce i frutti sperati; sono pochi coloro che si coinvolgono davvero in un percorso di vita cristiana, che si lasciano mettere in discussione riguardo a mentalità che sono estranee alla vita cristiana. Anche solo a livello numerico, terminato il percorso di iniziazione cristiana, la partecipazione diviene assolutamente esigua.
Queste richieste della gente hanno un valore e sono una grande possibilità; ma come possiamo evangelizzare queste domande facendole diventare un’occasione per crescere nella conoscenza di Gesù e nell’adesione alla Chiesa? Come evitare l’idea di una Chiesa fatta di “eletti”, di pochi selezionati? Come superare l’equazione nefasta che mette in relazione le esigenze dell’evangelizzazione con l’esclusione di tanti?
Questa è la sfida che ci troviamo ad affrontare fin da adesso e sempre più nel prossimo futuro. Se non troviamo delle piste condivise, frutto di una riflessione approfondita e di un discernimento sapiente, rischiamo le due derive contrapposte che segneranno la fine della nostra esperienza ecclesiale: la sacramentalizzazione diffusa senza evangelizzazione o la chiesa elitaria, composta solo dai “duri e puri”. Sono ambedue prospettive perdenti.
Qualcuno nel frattempo si sta muovendo, sia a livello di diocesi italiane, che con sperimentazioni parrocchiali. Alcune cose si stanno facendo anche da noi, ma, nell’individualismo che ci caratterizza (occorre riconoscerlo), vengono considerate il pallino di questo o quel prete, di questo o quel gruppo di laici. Occorrerebbe trovare il coraggio di aprire dei laboratori in cui si fanno delle sperimentazioni, delle verifiche, si condividono dei risultati (non solo delle teorie) e si tracciano delle piste da percorrere insieme.
Non dobbiamo inventare nulla di nuovo. La mappa dell’evangelizzazione è già stata disegnata dalla Chiesa apostolica del Nuovo Testamento, e tale mappa è stata utilizzata in modo diverso per più di venti secoli. A noi sta la sfida di utilizzare quella mappa nel contesto odierno, che non è più o meno difficile di quello di altri tempi, ma che non ci consente di procedere seguendo ognuno il proprio naso.
Ieri il vescovo Francesco, in conclusione della nostra assemblea di presbiterio, ci ricordava i “quattro punti cardinali” dell’evangelizzazione: testimoniare, annunciare, ascoltare e studiare (occorre anche ritornare a studiare con umiltà). Sono quattro punti su cui dobbiamo tornare ad orientarci e a verificare tutta la nostra pastorale, per farla divenire percorso di “evangelizzazione inclusiva“, come dovrebbe essere ogni processo di evangelizzazione.
Dobbiamo prenderne atto: tocca a noi, alla nostra generazione e a quelle future!
Occorre mettere in campo tutte le virtù cardinali e teologali, invocare tutti i doni dello Spirito Santo, ma questa rimane la nostra sfida evangelica e su questo saremo giudicati: non se otterremo risultati favolosi, ma se faremo del nostro meglio per far fruttare i talenti che ancora abbiamo, senza metterli sotto terra, illudendoci di poterli restituire tali e quali li abbiamo ricevuti.
Non ha mai funzionato così e non funzionerà così neanche per noi.
Una opinione su "Evangelizzazione = esclusione?"
I commenti sono chiusi.