Corpo. Nel cristianesimo al centro c’è il corpo.
Il Figlio di Dio si è fatto carne, ha preso un corpo per rivelarsi, per incontrarci, per donarsi. E’ morto ed è risorto con il suo corpo, quello che più volte i discepoli hanno voluto toccare per confermare la verità della risurrezione.
Mi rendo conto che, nonostante più di duemila anni di cristianesimo, questa cosa non sia affatto scontata. Non lo è per me; non lo è per molti.
Il corpo non è solo l’idealizzazione scolpita nelle statue dei grandi artisti dell’epoca classica, né quella rappresentata dalle immagini della pubblicità che suscita in noi desiderio di emulazione. Il corpo – per noi – è anche limite e scandalo.
E’ limite perché molto più del pensiero e dello spirito ci vincola ad un qui ed ora. E’ limite perché fisiologicamente segnato dalla fragilità. E’ limite perché ci riporta inesorabilmente a delle necessità a cui dobbiamo provvedere, nonostante tutte le nostre presunzioni di onnipotenza. In quanto limite, il corpo diviene causa e motivo di scandalo o semplicemente di imbarazzo e per questo motivo, sempre più spesso, viene negato.
Sentiamo di essere più del nostro corpo; ma siamo anche e soprattutto il nostro corpo.
Nonostante tutto questo, o forse proprio per salvarci da questo limite, il Signore ha assunto un corpo ed ha messo questo corpo al centro della rivelazione del volto di Dio.
Corpo. Nel giovedì santo al centro c’è il corpo.
La benedizione degli olii nella messa crismale del mattino mette l’attenzione sul corpo. Un corpo da curare (olio degli infermi), un corpo da rafforzare e abilitare alla lotta (olio dei catecumeni), un corpo da inabitare con la presenza dello Spirito (olio del crisma).
Anche nella liturgia vespertina dell’ultima cena il protagonista della liturgia è il corpo: un corpo accudito e curato da Gesù nel gesto della lavanda dei piedi; un corpo dato da Gesù nel segno del pane spezzato dell’eucaristia.
A questi due gesti sono legati due dei mandati più importanti che Gesù ha lasciato ai suoi discepoli: come ho fatto io, fate anche voi: da questo sapranno che siete miei discepoli; fate questo in memoria di me. Gesù oggi ci lascia il suo testamento e questo testamento ha molto a che fare con il corpo (non solo il suo, ma anche il nostro).
Ci chiede di prenderci cura dei fratelli e delle sorelle che ci pone accanto, chinandoci per lavare i loro piedi, facendolo noi, senza delegare altri. Ci chiede di donare noi stessi, non solo i nostri affetti, i nostri pensieri, le nostre intenzioni, ma, come ha fatto lui, di donare il nostro corpo. Il “fate questo in memoria di me“, non si riduce all’invito a rinnovare i gesti rituali della liturgia, ma richiede che ognuno di noi divenga un corpo, una vita donata, per rendere vivo e presente il dono che lui ha compiuto sulla croce.
Non ci sono parole più belle di quelle che san Paolo ha scritto ai Romani: Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale. (Rom 12,1)
Solo il contatto con il corpo vivente del Cristo e con quello dei fratelli e delle sorelle che la provvidenza di Dio ci fa incontrare, ci consente di rimanere nella verità della nostra fede. Se perdiamo questa dimensione del corpo rendiamo il cristianesimo evanescente, lo riduciamo ad una bella idea e ad un’etica, ma non è quello che il Signore ci ha lasciato e non è quello che celebriamo nella Pasqua.