La realtà in cui viviamo e i suoi limiti
Nella tradizione educativa ecclesiale e non ci troviamo sempre a confrontarci con figure di educatori molto carismatici e con forti personalità: da don Bosco a Baden-Powell, da don Milani a don Oreste Benzi, … quello che emerge è sempre la loro eccezionale individualità, messa al servizio di tanti, ma con un carisma personale incontenibile.
Non è strano che anche tutti noi come educatori (preti compresi) ci identifichiamo in un ruolo personale e mal sopportiamo le strutture collegiali che, al massimo, rivestono un valore funzionale.
Quando poi accade che ci ritroviamo bene con i nostri colleghi educatori e si creano dei buoni rapporti di équipe, accade che ci scontriamo con la comunità in senso più ampio; gli esempi appartengono alla cronaca delle nostre comunità: tensioni tra catechisti ed educatori, tra educatori e adulti, tra allenatori e catechisti, tra gruppo liturgico ed educatori, tra capi scout e catechisti, … poi la loro parte la fanno anche i preti e il risultato lo conosciamo.
Il titolo che avete proposto ci pone, dunque, in una doppia prospettiva di riflessione:
- essere comunità educante prima di ogni distinzione di ruolo
- essere comunità educante in una comunità ecclesiale.
È ovvio che io stasera vi propongo solo degli spunti che andranno rielaborati già nei lavori di gruppo, poi nel lavoro successivo.
Poiché non mi piace molto partire da quello che penso io, o dalla mia esperienza, perché ritengo che abbia un valore molto relativo, ho pensato di prendere alcuni spunti dal Nuovo Testamento, per vedere se ricaviamo alcuni elementi che ci possono aiutare.
In più sono rimasto molto provocato da un intervento del Vescovo che, a proposito della Missione straordinaria, ricordava agli operatori pastorali in genere che il nostro ruolo (catechista, educatore, operatore caritas, ecc.) non è altro che l’aggettivo del sostantivo “missionario-evangelizzatore” che ci accomuna. Se questo elemento lo condividiamo prima di ogni specificazione, possiamo farci istruire dai grandi missionari di cui ci parla il Nuovo Testamento.
Per essere fedele al testo del Nuovo Testamento devo necessariamente ribaltare l’ordine che noi ci diamo che però è un ordine logico e non evangelico. Prima viene tutta la Chiesa, poi il mio servizio nella Chiesa.
Una comunità educante dentro la comunità ecclesiale
Se c’è una cosa certa nel Nuovo Testamento e in particolare nel libro degli Atti è che l’unico soggetto che agisce è la Chiesa accompagnata dallo Spirito Santo o, se vogliamo (ma non cambia), lo Spirito Santo attraverso tutta intera la Chiesa. Molti sono nel NT i richiami all’unità e a pensarsi come un unico organismo (1Cor 12; Ef 4), perché anche a quel tempo il rischio che alcune individualità prevalessero sulla comunità o addirittura l’appello ad alcune individualità fosse il pretesto per dividere la Chiesa. Ricordiamo san Paolo ai Corinti, afflitti dal problema delle divisioni in seno alla comunità:
10Vi esorto pertanto, fratelli, per il nome del Signore nostro Gesù Cristo, a essere tutti unanimi nel parlare, perché non vi siano divisioni tra voi, ma siate in perfetta unione di pensiero e di sentire. 11Infatti a vostro riguardo, fratelli, mi è stato segnalato dai familiari di Cloe che tra voi vi sono discordie. 12Mi riferisco al fatto che ciascuno di voi dice: “Io sono di Paolo”, “Io invece sono di Apollo”, “Io invece di Cefa”, “E io di Cristo”. 13È forse diviso il Cristo? Paolo è stato forse crocifisso per voi? O siete stati battezzati nel nome di Paolo? … 17Cristo infatti non mi ha mandato a battezzare, ma ad annunciare il Vangelo, non con sapienza di parola, perché non venga resa vana la croce di Cristo.
4Quando uno dice: “Io sono di Paolo”, e un altro: “Io sono di Apollo”, non vi dimostrate semplicemente uomini? 5Ma che cosa è mai Apollo? Che cosa è Paolo? Servitori, attraverso i quali siete venuti alla fede, e ciascuno come il Signore gli ha concesso. 6Io ho piantato, Apollo ha irrigato, ma era Dio che faceva crescere. 7Sicché, né chi pianta né chi irriga vale qualcosa, ma solo Dio, che fa crescere. 8Chi pianta e chi irriga sono una medesima cosa: ciascuno riceverà la propria ricompensa secondo il proprio lavoro. 9Siamo infatti collaboratori di Dio, e voi siete campo di Dio, edificio di Dio. (1Cor 1,10-13.17;3,4-9)
Ci sono due passaggi nella vicenda di Paolo che rendono molto chiara la sua essenziale relazione con la Chiesa: il suo mandato missionario (At 13,1-4) e l’evento del Concilio di Gerusalemme (At 15,1-35).
Quali sono gli elementi che emergono? Li mettiamo in ordine solo per la nostra comprensione:
– è la Chiesa che ti chiama e che ti manda; è la Chiesa che ti affida una missione; non esistono auto-candidature ed auto-promozioni; chiunque esercita un ministero, lo esercita per il bene comune e a nome della Chiesa (Cfr. At 6; Ef 4; 1Cor 12)
– l’affidamento di un ministero o di un servizio nella Chiesa ha una radice essenzialmente spirituale (vocazionale) e non corrisponde immediatamente al bisogno, non è un servizio funzionale; è nella vita della comunità cristiana che io ritrovo la sorgente di ciò che mi ha costituito nel servizio (At 20 – discorso di Paolo ai presbiteri di Efeso)
– è la Chiesa che mi aiuta nel discernimento delle situazioni ed è a Lei che devo rendere conto dello svolgimento del mio servizio (non agli utenti); Cfr. At 11,1-18 – Pietro si giustifica con la comunità per aver battezzato un pagano (il centurione Cornelio) su impulso dello Spirito Santo.
– da parte della comunità cristiana è necessaria una presa in carico, una capacità di ascolto e la cura per la formazione di coloro a cui viene affidato un servizio; tutta la comunità si riconosce in quanto viene fatto da parte di alcuni che agiscono a nome della comunità.
Ci chiediamo:
– quanto ci sentiamo veramente chiamati e mandati dalla comunità cristiana nello svolgere il nostro servizio educativo? Quanto sentiamo vera la radice spirituale e vocazionale del nostro servizio educativo? Che differenza c’è tra il mio servizio ecclesiale e il volontariato in una OnG di qualcuno che conosco?
– quanto ci sentiamo presi in carico e curati dalla comunità a cui apparteniamo? Come si potrebbe meglio esprimere questa cura e questo legame in senso biunivoco? Come i nostri ragazzi e le famiglie ci percepiscono come mandati dalla comunità a svolgere il nostro servizio? Cosa impedisce che siamo riconosciuti come mandati dalla comunità cristiana? Che cosa contraddice il nostro servizio pur generoso?
Una comunità educante – Nella Chiesa niente free lance
Gli indirizzi delle lettere di Paolo sono la testimonianza più ordinaria di un grande missionario che si pensava in modo comunitario; sempre insieme di fronte alla comunità.
Paolo e Silvano e Timòteo alla Chiesa dei Tessalonicesi … (1Ts 1,1; 2Ts 1,1)
La fondazione della comunità di Antiochia (At 12,19-26): la sapienza di Barnaba che coinvolge Saulo nell’opera della missione e lo va a prendere a Tarso.
Dopo la rottura con Barnaba, Paolo si aggrega a Sila e Timoteo (At 15,36—16,5): si riconoscono dei limiti nella collaborazione, ma si formano subito nuove équipes di evangelizzazione.
Cosa possiamo imparare da questi esempi?
– l’impegno missionario, come anche l’educazione, ha una forma che non è indipendente dal contenuto e la sua forma è essenzialmente comunitaria. Gesù nel Vangelo è stato molto preciso su questo elemento: l’elemento di riconoscimento dei discepoli di Gesù è l’amore reciproco che testimoniano (Cfr. Gv 13,35); non ne esiste un altro. Chi dunque si impegna nella missione e nell’educazione (da intendere sempre come missione) non deve essere preoccupato prima di tutto dei contenuti che deve insegnare, ma della testimonianza che comunica e la testimonianza è quella di un amore fraterno con chi è coinvolto con me nell’azione educativa/missionaria. I contenuti saranno credibili se sono coerenti con la testimonianza (e viceversa).
– la comunità educante è il presidio necessario alle derive che inevitabilmente ogni educatore si trova a vivere nel corso della sua vita; il sintomo più evidente di una deriva è la ripetizione sterile: quando mi accontento di ripetere le mie proposte senza interrogarmi su chi io abbia dinanzi a me, su quali siano le sue esigenze, le sue potenzialità, i suoi interessi; quando sono preoccupato del programma e dei contenuti più che delle persone; quando (come dice spesso il Vescovo a noi preti) comincio ad andare in automatico, … allora solo una comunità di educatori mi può salvare e richiamare e costringere a pensare e a cogliere la particolarità di quei ragazzi, di questo tempo, di quelle famiglie con cui mi trovo ad interagire. Questo semplice agire comunitario che si interroga e che pensa è già un luogo di formazione nel mio essere educatore.
– la comunità educante è propedeutica alla comunità più ampia e mi offre una diversità di sensibilità, di esperienze di vita cristiana, di vocazioni con cui confrontarmi. Pensate per quanti bambini e ragazzi nel passato, come oggi, l’unico rapporto che hanno avuto ed hanno con la parrocchia e la comunità cristiana è attraverso quegli educatori che la provvidenza gli consente di incontrare; è grande la responsabilità che abbiamo perché per molti noi saremo l’unico volto concreto della comunità che incontreranno, forse per tutta la loro vita. Se incontrano una molteplicità di figure, forse possono avere uno sguardo ampio di cosa sia la Chiesa.
Ci chiediamo:
– come ci troviamo a vivere il nostro servizio come comunità di educatori? Quanto questa comunità la avvertiamo come un peso e quanto come una risorsa? Perché è un peso? Perché è una risorsa?
– quanto la comunità educante è per me luogo di formazione e di ri-motivazione al servizio educativo? Quali sono le dinamiche che vigono nella mia comunità di educatori? Come si potrebbero convertire per far divenire questa comunità una risorsa per me e per i ragazzi al cui servizio sono stato mandato?
– qual è il rapporto con le famiglie? Come si relazionano con la comunità degli educatori? Come la incontrano? Come sono coinvolti da ed in questa comunità?
– Come questa comunità educante si pensa in cerchi concentrici? Per esempio gli educatori di un gruppo; tutta una certa categoria di educatori (catechisti, educatori di AC, scout); tutti gli educatori della parrocchia; tutti gli educatori della ZP. C’è la consapevolezza della esigenza di una collaborazione a questi diversi livelli? Come li gestiamo? Quali strumenti ci diamo per non morire sotto questa organizzazione?
Incontro con educatori e catechisti della ZP di Rivazzurra – Bellariva – Miramare (16/11/2015)