Carissimo don Giovanni e amici del Ponte,
Durante l’estate non sono riuscito tanto a leggere il nostro settimanale diocesano perché la successione delle partenze/arrivi tra le varie esperienze estive non me lo ha concesso. Volevo condividere con voi una riflessione che mi sono trovato a fare in questi ultimi giorni, come tanti altri uomini e donne di buona volontà, di fronte ai fatti che quotidianamente ci vengono riproposti dai media riguardanti questo esodo dal sud del mondo verso la nostra Europa.
– Questi fatti accadono nel momento in cui siamo più deboli. L’auto-comprensione che caratterizza i popoli europei in queste circostanze, fa emergere la consapevolezza di una forte debolezza. Non abbiamo a disposizione mezzi economici, siamo deboli sul piano antropologico e anche su quello religioso. Siamo deboli! La prima reazione sarebbe quella di dire: non siamo in grado, dobbiamo prima pensare a noi; eppure la realtà ci interpella in modo travolgente e non ci lascia scampo ne’ alibi. Mi chiedo: cosa significa affrontare la sfida di questa accoglienza a partire dalla nostra debolezza? Questa debolezza a cui noi non siamo abituati, può essere – paradossalmente – la condizione privilegiata per vivere in modo veramente umano la sfida di questa accoglienza? Mi riecheggiano nella mente le parole di San Paolo: “quando sono debole è allora che sono forte”. Cosa significa questa parola per noi?
– Molte delle persone che approdano in Italia e in Europa vengono dai paesi che, fino a qualche decennio fa’, erano meta dei missionari che partivano dalle nostre chiese per andare ad evangelizzare. Ora la situazione ce li pone come vicini di casa. Molti di loro sono cristiani. Altri appartengono ad altre esperienze religiose. Cosa significa per noi porci la prospettiva della evangelizzazione mentre il Signore ci pone accanto coloro che fino a qualche tempo addietro andavamo a cercare? Saremo capaci di essere comunità che evangelizzano? A quali condizioni?
– Per le nostre comunità ecclesiali si prepara un tempo di prova, pari a quello che le comunità dei primi secoli vivevano di fronte alle persecuzioni. Per quelle comunità la persecuzione era un momento di grande purificazione, perché, accanto ai numerosi martiri di cui la storia ci fa fare memoria, molti altri abbandonarono la fede per paura, per interesse, …
Una situazione simile si prepara per noi di fronte a questa sfida della accoglienza che sarà un vero martirio, una grande occasione di testimonianza, di fronte alla quale le nostre comunità si spaccheranno. Basta vedere quanto è accaduto a Crema questa estate e leggere la drammatica lettera di mons. Cantoni, vescovo di quella terra, che deve fare i conti con una parte della sua comunità ecclesiale che rifiuta ogni dialogo sulla possibilità e sul dovere evangelico della accoglienza. Non sarà una persecuzione esterna che ci metterà alla prova, ma la sfida concreta di mettere in pratica il Vangelo a fronte di una situazione che ci interpella con drammaticità.
Ho sentito che molti paragonano gli eventi di questi tempi a quanto accadde al tempo delle invasioni barbariche che determinarono la fine dell’impero romano come era conosciuto fino a quel momento. Se il paragone è pertinente, dobbiamo ammettere che la società di quel tempo viveva una grande decadenza e che furono proprio i cosiddetti barbari a portare ossigeno e linfa nuova ad una società e cultura giunte a capolinea. La Chiesa di quel tempo, poi, guidata da grandi figure di pastori, non perse l’occasione dell’annuncio e non si rinchiuse in difesa, ma accolse la sfida dell’incontro con questi popoli che erano scesi in Italia, facendo loro conoscere il Vangelo di Gesù.
A noi uomini e donne di questi primi anni del terzo millennio spetta di dare una risposta a questa situazione. Il futuro dipenderà dalle scelte che saremo capaci di vivere oggi.
don Andrea Turchini