Integrare verbo prezioso

Quando io ero giovane esisteva l’anno e l’esame integrativo cui si dovevano sottoporre gli studenti degli Istituti Magistrali se volevano accedere all’università: il loro percorso era infatti di soli quattro anni.

Poi abbiamo cominciato a conoscere gli integratori alimentari che servivano per sostenere un’alimentazione carente di alcuni elementi necessari al soggetto.

Il termine integrazione ha sempre posseduto anche una forte componente sociale per indicare il processo di inserimento in un determinato contesto socio-culturale di persone che provenivano da altri contesti culturali: l’integrazione sembrava un obiettivo ideale da raggiungere, molto meglio dell’aggregazione, dell’assimilazione o dell’omologazione.

Da qualche anno questo termine è entrato anche nel linguaggio ecclesiale associato, spesso ad un altro termine che, a partire dal Concilio Vaticano II ha assunto un valore nobile; il termine pastorale.

Pastorale integrata è un’espressione à la page che si trova spesso sulla bocca degli addetti ai lavori e -ahimé- anche sulla mia. Attualmente questa espressione viene utilizzata con due valenze principali che – a volte – tendono a confondersi. Due parole sommarie per orientarsi.

La prima valenza è quella assegnata all’espressione dal Convegno ecclesiale di Verona del 2006 durante il quale, a seguito di un’analisi preoccupata riguardo alla tendenza verso una frammentazione specialistica del’azione pastorale ecclesiale, si è proposta una nuova visione della pastorale che ponga al centro la persona con i dinamismi fondamentali della sua esistenza come ambiti e occasioni di evangelizzazione e di crescita nel’esperienza della fede. Non più quindi una pastorale che si strutturi secondo settori di competenza e di governo (catechesi, liturgia, carità, sociale, famiglia, scuola …), ma un’azione pastorale che tenga presenta la persona nella sua unitarietà e colga gli ambiti della sua vita in cui è più urgente un’azione evangelizzatrice (fragilità, affetti, tradizione, cittadinanza, lavoro e festa).

Una seconda valenza che si sta imponendo riguardo a questa espressione è quella che interpreta il processo di riorganizzazione territoriale in atto in diverse diocesi che, per far fronte alle esigenze di una nuova evangelizzazione e al calo numerico dei preti diocesani, cerca di rinnovare la presenza territoriale della comunità ecclesiale in modo più conforme alle esigenze del nostro tempo.

Perché si è assunto il termine integrazione? Perché esso ci permette di accostarci alla realtà non solo riconoscendo cosa manca, ma partendo da ciò che c’è e valorizzando al massimo quello che la realtà oggi ci presenta. Ogni prospettiva di crescita andrà pensata a partire da ciò che è presente e integrandolo in modo il più possibile armonico con ciò che ancora è carente.

E’ bello pensare anche a livello educativo ad una educazione integrativa e non omologante. Riconoscere ciò che c’è, partire dalle risorse della persona, dai doni di cui è portatore, per farli giungere alla pienezza dell’esperienza di vita. Ognuno di noi allora si può porre in un bel percorso di formazione permanente perché nessuno è così ricco e completo da non aver bisogno di integrazioni e nessuno è così povero da non aver un punto di partenza significativo da cui iniziare.

Integrare è verbo davvero prezioso

Pubblicato da tecnodon

Prete cattolico. Formatore in seminario ed Assistente AGESCI

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